Fine vita, la Consulta rinvia la decisione a domani

È terminata l’udienza pubblica sulla costituzionalità dell’aiuto al suicidio, sollevata dalla Corte d’Assise di Milano nell’ambito del processo al radicale

È slittata a domani, 25 settembre, la sentenza della Corte Costituzionale sulla punibilità dell’aiuto al suicidio. La questione di legittimità riguarda l’articolo 580 del codice penale che punisce, con pene tra i 5 e i 12 anni di carcere, l’istigazione o l’aiuto al suicidio.


A sollevare il caso alla Consulta è stata la Corte d’Assise di Milano nel febbraio 2018, a margine del processo a Marco Cappato sul caso del suicidio assistito di Fabiano Antoniani, in arte Dj Fabo. 


«Il compito della Consulta è un compito difficile e importante» e noi «attendiamo col massimo rispetto questa decisione, qualunque sia. Ho aiutato Fabiano perché l’ho ritenuto un mio dovere morale. Ora dovremo sapere se può essere riconosciuto come un diritto», aveva commentato Marco Cappato dopo l’udienza pubblica sulla costituzionalità dell’aiuto al suicidio tenutasi in mattinata.

«Qui non c’è in causa solo più il diritto di Fabiano o la mia situazione personale, ma la libertà fondamentale di tante persone che si trovano in situazione di sofferenza, di sofferenza insopportabile e che non vogliono più subire. Questa è la posta in gioco oggi, il Parlamento si è dimostrato inadeguato ad affrontare il tema».

Cappato ha poi citato il caso di Remo Cerato, il 58enne consigliere comunale di Germagnano, in provincia di Torino, morto lo scorso 9 settembre e che ha denunciato l’essere «andato incontro alla morte con l’agonia della sospensione delle terapie non potendo accedere all’assistenza e alla morte volontaria».

Questi, prosegue Cappato, sono solo i casi conosciuti: «Non sappiamo quanto di clandestino, di sconosciuto, nella disperazione che la clandestinità crea accade nelle corsie degli ospedali e nelle case degli italiani, che hanno il diritto di essere aiutati alla luce del sole».

La storia

Marco Cappato ha accompagnato in Svizzera per il suicidio assistito Dj Fabo, nome d’arte di Fabiano Antoniani, il giovane rimasto cieco e tetraplegico a causa di un incidente stradale avvenuto nel 2014. Accanto a lui, in aula, la compagna di Antoniani, Valeria, e Mina Welby, compagna di Piergiorgio Welby, morto nel 2006.

«Ho aiutato Fabiano perché l’ho ritenuto un mio dovere morale. Ora vediamo se può essere riconosciuto come diritto. C’è in causa la libertà fondamentale di tante persone che si trovano in condizione di sofferenze insopportabili che non vogliono più subire».

«I capi dei partiti hanno preferito di impedire ai loro parlamentare di decidere su un tema dove non vale la logica della rissa».

In aula

«Fabiano ha cercato di rendere pubblica la sua sofferenza, per rendere la sua battaglia una battaglia per la libertà di tutti quanti», dice Valeria Imbrogno, la compagna di Fabiano Antoniani. «Certamente Piergiorgio sarebbe molto contento, e credo che molte persone si rivolgono noi chiedendo il suicidio assistito in Svizzera, non dovranno più avere paura di potere morire anche in Italia», aggiunge Mina Welby.

La Corte riconosca che «la dignità del morire non è meno importante della dignità di vivere» e «non dimentichi chi entrerà in una notte senza fine, una notte in cui nessuno dovrebbe essere lasciato solo», dice nel suo intervento l’avvocato Vittorio Manes, difensore di Marco Cappato.

«Il Parlamento ha deciso di non decidere e coerenza impone alla Corte di non fare un passo indietro», ha aggiunto riferendosi all’ordinanza con cui, un anno fa, la Consulta sospese la sua decisione per dare il tempo al Parlamento di legiferare sul fine vita.

Nel suo intervento, l’avvocato ha citato poi il «coraggio» di Fabiano Antoniani, e la «solidarietà» di Marco Cappato che, accompagnandolo, ha «accolto il suo grido di dolore».

In copertina Marco Cappato, a sinistra, con Valeria Imbrogno al termine dell’udienza pubblica sul caso dell’aiuto al suicidio di Dj Fabo, Palazzo della Consulta, Roma, 24 settembre 2019. ANSA/Riccardo Antimiani

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