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Super Tuesday, l’intervista – Tonello: «La disfatta di Bloomberg vittoria per la democrazia. Ecco perché»

Si tratta di una giornata che preoccupa i supporter del senatore del Vermont, che comunque rimane saldamente in gara. Ne abbiamo parlato con l'esperto di Stati Uniti Fabrizio Tonello

Si dice che chi vince il Super-Martedì solitamente vince anche la nomination democratica. A scrutini non ancora conclusi (il conteggio va avanti in alcuni stati, tra cui la California) il senatore del Vermont, Bernie Sanders, favorito alla vigilia, ha vinto soltanto in quattro Stati, ma il numero di delegati potrebbe non discostarsi troppo da Joe Biden, protagonista di una clamorosa rimonta cominciata con le primarie della Carolina del Sud. Nel frattempo, come sottolinea Fabrizio Tonello, professore di Scienze Politiche all’Università di Padova, c’è un altro dato, importante: l’esperimento di Mike Bloomberg, di concentrare le sue energie e i suoi milioni sul Super-Tuesday è fallito. L’ex sindaco di New York ha dovuto ammettere la sconfitta, lasciando la gara e appoggiando ufficialmente Joe Biden, come avevano fatto prima di lui Pete Buttigieg e Amy Klobuchar. Così ha fatto, con un giorno di ritardo rispetto a Bloomberg, anche Elizabeth Warren, arrendendosi all’inevitabile.

Il risultato deludente per Bloomberg è la prova che i voti non si possono comprare?

«Bloomberg ha speso una cifra difficile da immaginare, per ottenere 4 delegati delle Samoa Americane dove hanno votato 345 persone. Da questo punto di vista il partito democratico ha respinto in maniera che non poteva essere più netta l’idea di un miliardario che con la pubblicità televisiva vuole comprarsi la candidatura. Questo mi sembra un elemento positivo per la democrazia. Bloomberg sta seduto su 60 miliardi di dollari: il suo patrimonio corrisponde a 1,5 milioni di anni di stipendio di un americano medio. Ha fatto un grande esperimento, spendendo una cifra vista mai prima. In altre situazioni avrebbe potuto funzionare, ma non dimentichiamoci che nella elezioni americani c’è questa legge plumbea per cui il candidato che spende di più vince, ma funziona il 90% delle volte non il 100%. Adesso appoggerà Biden con i suoi soldi e siccome sarà una campagna elettorale costosa, i soldi faranno comodo, soprattutto se il candidato dei democratici sarà Biden»

L’altra sconfitta è Elizabeth Warren. Dobbiamo aspettarci un suo endorsement a Sanders?

«Warren e Sanders rappresentano naturalmente entrambi la sinistra del partito, anche se Sanders ha dimostrato una maggiore capacità, forse perché Elizabeth Warren è un candidato troppo “intellettuale” per la politica americana: ha fatto la sua carriera all’università e rispetto agli altri candidati alla presidenza è l’unica che ha presentato un programma molto dettagliato. C’è anche da dire che negli ultimi mesi i rapporti tra i due si sono molto raffreddati: erano entrati nella campagna con l’intenzione di non criticarsi, ma alla fine si è visto che la dimensione della competizione, allontana anche gli amici politici. Tra l’altro Sanders le ha fatto uno sgarbo – quello di fare campagna elettorale nel Massachusetts negli ultimi giorni – quindi Warren potrà difficilmente dimenticare l’umiliazione di arrivare terza nel suo Stato. Comunque lei ha visto che si era delineato nei 18 stati in cui si è votato una dinamica per cui l’ala progressista per il partito si aggregava attorno a Bernie Sanders e non attorno a lei. Potrebbe non dare indicazioni di voti fino alla convention, ma comunque i suoi elettori sosterranno Sanders, quindi a lei conviene seguirli»

Passiamo ai vincitori. Tenendo a mente che i risultati sono ancora parziali, si può parlare di un pareggio? 

«Biden ha registrato un ottimo risultato che è dovuto interamente a questa operazione a far rinunciare alla corsa due candidati più giovani e centristi, Buttigieg e Klobuchar, e sembra che i loro voti siano confluiti su Biden. Questo è il motivo per cui l’ex presidente ha ottenuto un ottimo risultato vincendo in dieci Stati, in particolare nel Sud. Per quanto riguarda i due stati più grossi, in California ha sicuramente vinto Sanders, mentre in Texas la vittoria è andata a Biden. Quello che spesso non è chiaro nelle cronache è che non ha molto importanza chi ”vince”, ma la ripartizione dei delegati, perché alla fine alla vincerà chi otterrà una maggioranza di delegati: da questo punto di vista può benissimo accadere che Biden e Sanders arrivino alla Convention con un numero di delegati molto simile». 

Biden è riuscito a portare a casa risultati importanti in stati del Sud, tra cui il Virginia, ma anche in alcuni stati del Nord dove era favorito Sanders. Come se lo spiega?

«La Virginia è uno Stato dove i repubblicani sono molto forti. Virginia vuol dire anche i sobborghi di Washington, quindi è possibile che lì i cittadini votino un candidato che è stato per molto tempo a D.C, come Biden. Per quanto riguarda il Nord Est, la vera sorpresa è il Massachusetts, dove ha vinto Biden, sia contro Sanders sia contro Warren, questa sì che è una sorpresa. Nel Minnesota è stato fondamentale invece il ritiro di Amy Klobuchar. I due candidati principali mostrano di avere un sostegno nazionale abbastanza omogeneo».

Per Sanders è stata comunque una serata al di sotto delle aspettative. Perché la sua corsa sta rallentando?

«Credo che Biden sfrutti la sua associazione con Obama e che quindi possa sfruttare il sostegno degli afroamericani. Biden inoltre sfrutta i voti degli over 65enni che tendono a votare di più. Ma siccome la composizione demografica americana sta cambiando, perché si sta ringiovanendo, per Biden questo è un problema. Sanders non riesce a far breccia nell’elettorato afroamericano e questo è un suo limite».

Si tratta dunque di una vittoria dell’establishment contro “l’outsider” Sanders? 

«Sicuramente sì: l’establishment ha fatto un’abile manovra facendo ritirare due candidati alla vigilia del Super Tuesday in modo che i loro voti confluissero su Biden. Dopotutto, l’establishment è ed era disperato per fermare Sanders. Non dimentichiamo che Biden era un senatore già 40 anni fa e che ha alcune posizioni rispetto al resto del partito che sono piuttosto datate. Si ripete la dinamica del partito repubblicano rispetto a quattro anni fa, per fermare Trump: anche se alla fine Trump è riuscito a conquistare il partito. In questo momento la manovra dell’establishment sembra riuscita, ma la strada è lunga: mancano esattamente 32 Stati in cui si deve votare e si devono assegnare oltre la metà dei delegati». 

Una mossa che però potrebbe finire per danneggiare il partito democratico nelle elezioni di novembre? 

«Si perché in tutti i sondaggi in cui si ipotizza uno scontro a due, Sanders è quello che fa meglio. Anche perché è il candidato che parla meglio ai candidati bianchi senza laurea che si sentono abbandonati e che quattro anni fa hanno votato per Trump. Negli stati del MidWest questo è un fattore chiave. Trump è sempre stato un candidato di minoranza: ha vinto perché ha trionfato in alcuni collegi elettorali chiave  – Wisconsin, Pennsylvania e Michigan – per 78 mila voti in un’elezione in cui hanno votato circa 100 milioni di elettori. Da questo punto di vista Sanders sarebbe un candidato migliore. Ma bisogna convincere gli elettori democratici».

Devono ancora votare diversi stati dell’Ovest. Si tratta di un vantaggio per Sanders?

«La California ha dimostrato che l’Ovest è un territorio più amichevole per Sanders, ma dipende molto dalla composizione demografica, quanti sono i latinos che devono sostenerlo, e dipende anche da quanti giovani andranno a votare. C’è anche un problema tecnico: in molti stati chi non è registrato preventivamente come democratico, non può votare e nel caso degli elettori giovani, molti sono registrati come indipendenti, quindi è possibile che questo sostegno per Sanders possa non materializzarsi»

L’intervista è stata aggiornata il 6 marzo dopo il ritiro di Mike Bloomberg e di Elizabeth Warren

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