Coronavirus, corsa delle Regioni ai test sierologici per identificare gli immuni e ripartire. Ma sono affidabili?

Il pericolo? «Potremmo rilasciare dal lockdown una popolazione in cui l’immunità è al di sotto della soglia utile per l’immunità di gregge: il virus ritornerà a circolare, e rischieremo una nuova epidemia»

Mentre mezza umanità è in quarantena a causa del Coronavirus, e l’Italia resta barricata in casa sperando di assistere finalmente alla discesa nella curva dei contagi, si comincia a pensare al dopo. Il futuro prossimo – ma anche già il presente – sarà infatti fatto di test sierologici: esami rapidi del sangue che permettono di individuare chi, nella popolazione, ha sviluppato gli anticorpi perché è stato colpito dal virus, magari senza neanche accorgersene. Quelle persone possono, per quello che ne sappiamo, tornare al lavoro e non infettarsi di nuovo, almeno nel breve periodo: avrebbero il cosiddetto “passaporto immunologico”.


Test rapidi le cui sperimentazioni stanno partendo o sono già partite dal nord al sud, per avere un quadro epidemiologico necessario anche a impostare l’eventuale ripartenza di alcune aree. L’esame del sangue ha avuto la validazione delle Università di Padova e di Verona e permette di rilevare la presenza delle immunoglobuline, che possono indicare se c’è stata o meno l’immunizzazione. Una strada che però non si può percorrere in ordine sparso: «Servono linee guida chiare e urgenti», avverte per esempio il ministro per gli Affari Regionali Francesco Boccia, «perché è illusorio pensare a un mondo senza positivi tra un mese». Lo segue a ruota nel chiedere «una strategia nazionale» anche la Regione Lazio guidata dal segretario del Pd Nicola Zingaretti.


I tipi di test

In totale, secondo quanto riporta l’Ansa, sono 36 i laboratori che in 11 regioni italiane si stanno preparando per eseguire i test sierologici. Che sono di due tipi: quelli da eseguire in laboratorio appunto, per identificare nel sangue la presenza degli anticorpi contro il coronavirus SarsCoV2, sono più affidabili, ma costano di più e impiegano più tempo. E poi ci sono esami più rapidi che danno un riscontro in appena una decina di minuti e che costano dai 12 ai 25 euro, ma al momento con ampi margini di errore (affidabili al 30%): l’Organizzazione Mondiale della Sanità al momento ne sta esaminando oltre 200.

La corsa – in ordine sparso – delle Regioni

Nell’attesa di linee guida valide per tutti, alcune regioni si stanno muovendo: e di nuovo, ognuno fa da sè. In Veneto vengono testati i dipendenti della sanità e delle case di riposo, e la sperimentazione è iniziata anche in Liguria, per esempio, su personale sanitario e ospiti delle RSA, le Residenze Sanitarie Assistenziali (lo stesso accadrà in Piemonte), mentre a breve verrà coinvolto anche chi dona il sangue. Anche le Marche hanno ordinato centinaia di questi presidi diagnostici rapidi. In Emilia Romagna verranno esaminati gli operatori della sanità e quelli dei servizi socioassistenziali. In Puglia la sperimentazione è cominciata dagli ospedali, come spiega Pierluigi Lopalco, coordinatore scientifico della task force pugliese per l’emergenza: «Siamo nella fase della validazione dei test, stiamo sperimentando diverse tipologie».

In Campania ci sono sette laboratori che possono effettuare i test più costosi. Sei sono in Liguria e Lombardia, cinque in Veneto e Sicilia, tre in Piemonte, due nel Lazio, uno in Friuli, Emilia Romagna, Toscana e Puglia.

Fuori dal coro la Lombardia, con il governatore Attilio Fontana che frena – «Ci atterremo alla scienza», e l’assessore lombardo al Welfare Giulio Gallera per il quale il momento della mappatura sulla presenza degli anticorpi nella popolazione avverrà solo a pandemia finita.

A volere il test sono anche alcune grosse aziende italiane la Ducati per esempio pensa di metterlo a disposizione dei dipendenti, per ripartire il prima possibile. «È urgente riavviare la produzione il prima possibile al massimo della sicurezza», dice Claudio Domenicali, che di Ducati è l’amministratore delegato. Si aspetta il protocollo sanitario, certo, ma l’idea piace a molte aziende in Emilia e non solo, che scalpitano per ripartire.

I rischi

«Se i test non sono validati il rischio è di avere falsi positivi o falsi negativi. Per esempio il test può risultare falso positivo se una persona è stata infettata da altri virus, come i coronavirus responsabili del raffreddore», spiega il virologo Francesco Broccolo, dell’università Bicocca di Milano e direttore del laboratorio Cerba di Milano. Il pericolo è quindi di basare delle decisioni su esiti sbagliati.

La Regione Toscana ha annunciato uno screening di massa con 500mila test in arrivo: secondo CovidItaliaNews sarebbero quelli della Diesse Diagnostica Senese, che però non sono ancora pronti e non lo saranno prima di metà aprile. Il responsabile dell’Asl toscana Centro, Renzo Berti, racconta poi di un test rapido cinese che però ha un margine di errore del 40%.

«I kit che oggi sono a disposizione non danno risposte certe», avverte l’assessore lombardo Giulio Gallera.

La simulazione

«La precisione del test che utilizziamo deve essere molto alta e molto accuratamente determinata», avverte Enrico Bucci, biologo della Temple University di Philadelphia in un intervento su Il Foglio. «Tanto più è basso in una regione il numero di soggetti realmente immuni, tanto più pericoloso sarà affidarsi a test la cui precisione non sia prossima al 100% – e quindi soprattutto le regioni in cui il virus è circolato poco devono richiedere la massima stringenza dei test sierologici». Con i dati attuali, è per esempio la situazione di tutto il Sud.

Bucci fa un esempio pratico che spiega perché una non attendibilità rischia di produrre effetti rischiosi: «Proviamo a immaginare uno scenario in cui il 3% della popolazione sia stato esposto al virus e abbia sviluppato immunità, un valore piuttosto alto ma non impossibile», dice il biologo. Se il test fosse affidabile al 100%, troveremmo così 3 soggetti immuni (su 100). Hanno gli anticorpi, quindi possono uscire e andare al lavoro – per esempio – mentre tutti gli altri – 97 su 100 – restano chiusi.

«Ora immaginiamo anche che una ditta cinese ci fornisca un test che è capace con buona precisione – diciamo il 97% – di trovare gli anticorpi nel sangue dei soggetti di chi li possiede», prosegue Bucci. «Un test così buono, cioè, che 97 volte su 100 chi possiede gli anticorpi risulti diagnosticato come immune». Con un test di questo tipo, quindi, nella simulazione che fa il biologo, oltre ai tre casi realmente immuni si trovano altri tre “falsi positivi” (nel test risultano immuni, in realtà non lo sono: è il margine di errore dell’esempio che fa il professore). Così, facendo affidamento su questo test, ogni 100 persone 94 restano a casa e 6 vanno a lavorare.

Ma di queste 6, tre hanno realmente gli anticorpi e tre persone sono state invece diagnosticate in modo sbagliato. «Quando rilasceremo dalla quarantena i nostri 6 soggetti, solo il 50% di essi sarà realmente immune», spiega quindi Bucci. Risultato? «Supponiamo infine che sulla base dei risultati di questo test stabiliamo chi possa tornare al lavoro, e in definitiva a una vita normale, e che l’immunità di gregge sia garantita quando il 60 per cento di una comunità sia immune». Così «rilasceremo dal lockdown una popolazione in cui l’immunità è al di sotto della soglia utile per l’immunità di gregge: il virus ritornerà a circolare, e rischieremo una nuova epidemia».

In copertina ANSA/Giorgio Benvenuti | Test sierologici per verificare la presenza di virus su campioni prelevati in allevamenti presso il laboratorio zooprofilattico sperimentale di Forlì.

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