Coronavirus. I vaccini antinfluenzali potrebbero aiutarci a contrastare la pandemia? Analizziamo lo studio di The Lancet

L’influenza stagionale potrebbe favorire l’aggravarsi della pandemia? Sono ipotesi che devono ancora essere dimostrate

The Lancet pubblica il 7 maggio uno studio, che cerca di scavare ulteriormente sulle dinamiche del nuovo Coronavirus, e sulle risposte immunitarie che provoca lungo i tessuti del tratto respiratorio umano. Sembrerebbe così dimostrare l’importanza dei vaccini antinfluenzali, per meglio proteggerci dal SARS-CoV2. 

Al momento però l’unica cosa certa è che potrebbero ridurre il carico dei nostri ospedali nel prossimo autunno-inverno. La ricerca che andremo ad analizzare riguarda delle colture. Saranno necessari ulteriori studi per confermare con certezza i risultati che suggerisce.

I ricercatori hanno comparato il comportamento di SARS-CoV2 con quello di altri virus, come quello della Sars, della Mers e dell’influenza H1N1; quest’ultimo lo avevamo già incontrato in un precedente articolo: causò una pandemia nel 2009, ma poi si indebolì, entrando a far parte dell’influenza stagionale.

Così è stato scoperto quanto già si sospettava: i virus influenzali possono provocare un incremento dei recettori ACE2 – in special modo nelle cellule del tratto respiratorio – bersaglio del SARS-CoV2.

Precisiamo fin da subito, che una maggiore espressione degli ACE2 non implica con certezza maggiori rischi. Esistono anche ipotesi opposte, visto che questi recettori potrebbero trovarsi in maggior numero nei bambini, calando con l’avanzare dell’età. Sappiamo però che proprio i bimbi sono i soggetti meno a rischio rispetto ai più anziani.

Come è stata condotta la ricerca

I virus non possono moltiplicarsi da soli, al contrario dei batteri, quindi sono state utilizzate delle «cellule Vero», perché potessero infettarle. Si tratta di una linea di cellule tipicamente usate per questo genere di esperimenti (in questo caso le VeroE6), in particolare anche nella ricerca sui vaccini. Per i virus influenzali sono state utilizzate similmente le cellule Madin-Darby.

Quando riusciamo a ottenere un virus che si moltiplica in coltura, significa che abbiamo ottenuto il suo «isolamento». I patogeni studiati dai ricercatori provenivano da tessuti umani estratti da pazienti di Hong Kong; risultati positivi – in tempi differenti – al Covid-19, alla Sars, alla Mers, all’influenza da virus H1N1 e all’aviaria asiatica (virus H5N1).

Isolati i patogeni, sono stati utilizzati tessuti estratti da bronchi e polmoni di pazienti tra i 44 e 85 anni, allo scopo di infettarli con ciascuno dei virus. Una parte di questi invece sono stati messi in contatto a finte colture, fungendo quindi da controlli negativi (l’equivalente di un placebo somministrato a un gruppo di controllo), in questo modo è stato possibile valutare in che misura certe osservazioni fossero dovute al caso. 

È stato possibile quindi misurare con precisione la «titolazione virale», ovvero quanto i virus fossero in grado di moltiplicarsi liberamente nei tessuti. Similmente, l’esperimento è stato condotto anche su cellule del sistema immunitario provenienti da tre donatori. Anche in questo caso alcune sono state infettate «per finta», in modo da studiare le differenti reazioni immunitarie.

Le ipotesi (da dimostrare) su citochine e ACE2

Appare evidente ai ricercatori che SARS-CoV2 prospera particolarmente nel tratto respiratorio umano. Bocca, naso e occhi sono sicuramente le porte di ingresso principali (fin qui niente di nuovo), mentre sorprendentemente non sembra più potente rispetto ai “colleghi” dell’influenza nello scatenare la tanto temuta «tempesta di citochine»: una risposta immunitaria violenta, che invece è stata riscontrata nei pazienti gravi di Covid-19.

«Segnaliamo la competenza di replicazione e il tropismo cellulare della SARS-CoV-2 nel tratto respiratorio umano – spiegano gli autori – e nel tessuto e nelle cellule espiantate extrapolmonari. L’epitelio congiuntivale e le vie aeree conduttive sembrano essere potenziali portali di infezione di SARS-CoV-2. Sia SARS-CoV che SARS-CoV-2 si sono replicati in modo simile nell’epitelio alveolare, ma SARS-CoV-2 si è replicato ampiamente nell’epitelio bronchiale, il che potrebbe spiegare la robusta trasmissione di questo coronavirus pandemico. SARS-CoV-2 era un induttore meno potente di citochine proinfiammatorie rispetto ai virus H5N1, H1N1pdm o MERS-CoV».

Stando ai risultati di questo studio, viene da chiedersi quanto i virus influenzali possano aver giocato un ruolo nello sviluppo dei casi gravi di Covid-19. Siamo però nel campo delle ipotesi. Gli stessi ricercatori infatti, sembrano scettici riguardo al ruolo delle citochine:

«Tali studi non possono chiarire se queste elevate citochine e chemochine sono un fattore trainante della patologia o semplicemente un riflesso del danno polmonare più grave che si è verificato – continuano gli autori – In sintesi, le risposte proinfiammatorie delle citochine potrebbero contribuire modestamente alla patogenesi e alla gravità della COVID-19 umana, come è stato osservato con MERS-CoV, 28 e in contrasto con quelli osservati in H5N1».

Va ricordato comunque, che non tutti gli esperti concordano, ritenendo invece il ruolo delle citochine piuttosto rilevante, anche perché spiegherebbero il ruolo dei farmaci immunosopressivi – come il Tocilizumab – nel controllare la malattia. Ma gli autori si focalizzano un altro aspetto.

Il problema principale riguarderebbe i recettori ACE2, ovvero i bersagli delle glicoproteine Spike, necessarie al SARS-CoV2 per penetrare nelle cellule. 

«Abbiamo dimostrato che l’espressione dell’mRNA di ACE2 era significativamente sovraregolata nelle cellule epiteliali alveolari dopo l’infezione da virus dell’influenza A, con H5N1 che aveva un effetto più pronunciato di H1N1pdm in vitro».

Conclusione: uno studio limitato da diverse incognite

Per tanto i ricercatori suggeriscono che i virus influenzali possano giocare un ruolo importante nell’incremento di questi recettori, concorrendo a rendere più grave l’infezione da Covid-19. Ma come accennavamo nell’introduzione, anche questa correlazione necessita di ulteriori studi per accertare un nesso causale.

Gli stessi autori dello studio auspicano ulteriori indagini in merito. Ricordiamo infatti che stiamo sempre parlando di esperimenti svolti su colture, non su cavie. Mancano inoltre esami con tessuti rinofaringei, ovvero i più rilevanti nello studio della trasmissione del virus.

Sulle citochine le analisi sono state parziali. «La replica del nostro studio con una maggiore dimensione del campione, più citochine e il rilevamento di proteine ​​secrete di citochine farebbe luce sulla patogenesi della SARS-CoV-2», spiegano i ricercatori.

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