Crisanti si schiera: «Sì al vaccino anti-Covid obbligatorio, ma attenzione alle scorciatoie» – L’intervista

Il virologo dell’Università di Padova dice la sua sull’obbligatorietà del vaccino anti-Covid e mette in guardia sulle «sorprese» che potrebbero esserci riguardo ai risultati sull’efficacia

Il virologo Andrea Crisanti dell’Università di Padova risponde alle ultime polemiche sull’obbligatorietà della formula vaccinale contro Covid-19. Mentre il premier Conte dice no al vaccino obbligatorio, Renzi rilancia con un sì e propone una raccolta firme, e alcuni ricercatori, ad esempio quelli dello Spallanzani spiegano che la costrizione non risulterebbe necessaria, l’uomo diventato particolarmente famoso per aver gestito e contenuto l’emergenza in Veneto apre all’obbligo. Ma avverte anche sui rischi di un antidoto sperimentato in tempi particolarmente rapidi.


Prof. Crisanti, vaccino anti-Covid obbligatorio o no?


«Sono d’accordo sull’obbligatorietà del vaccino anti-Covid, credo che la misura sia necessaria vista l’urgenza che avvertiamo tutti di arrivare all’obiettivo. Ma attenzione che non ci siano scorciatoie».

In che senso?

«Prima di parlare di obbligatorietà, che, ribadisco, ritengo assolutamente legittima e necessaria, credo che si debba essere sicuri che non si sia presa nessuna strada troppo veloce per arrivare all’obiettivo. Per sviluppare un vaccino ci sono dei tempi molto più lunghi, almeno quattro anni di sperimentazione. Un vaccino preparato in sei mesi, un anno, potrebbe presentare delle sorprese successive. Una responsabilità dunque che al momento è presto per potersi assumere.

Teniamo presente che uno degli aspetti fondamentali della somministrazione di un vaccino è che si tratta di persone sane. Non si parla di persone già affette da malattia grave, disposte anche ad accettare effetti collaterali pesanti pur di guarire. Noi stiamo dando l’ipotetico vaccino a persone non solo sane ma con prospettive di vita lunghe».

Quali sono i fattori che secondo lei potrebbero ostacolare l’obbligatorietà?

«Siamo tutti geneticamente differenti, la sperimentazione ha bisogno di un campione rappresentativo della popolazione mondiale. Questo significa utilizzare già in fase 1 dei campioni giganteschi, di almeno 100, 200mila persone al fine di dimostrare che la formula non abbia effetti collaterali per sesso, età, etnia e condizioni patologiche sottostanti.

Uno studio enorme. Sempre sullo stesso campione bisogna dimostrare lo sviluppo di anticorpi. Che gli anticorpi stessi, poi, siano in grado di neutralizzare il virus in vitro, e che rimangano a livelli elevati nel tempo. Infine arrivare alla certezza che gruppi di persone vaccinate abbiano probabilità minore di essere infettate rispetto a persone non vaccinate a parità di esposizione. Capisce che è un percorso complicatissimo? Nel caso del morbillo, per citare un vaccino a tutti noto, ha impiegato otto anni di ricerca. Non si tratta di sciocchezze».

Una questione di rischi momentanei a cui stare attenti quindi e non un’opposizione all’idea generale di vaccino obbligatorio?

«Certo. La sperimentazione dell’Istituto Jenner di Oxford insieme ad Astrazeneca e Irbm, comincia a fornire dei numeri che mi tranquillizzano di più, 60mila le persone reclutate. Ma non mi sento di essere certo della procedura con cui le decine di ricerche attuali stanno andando avanti. Quindi stiamo cauti. Porto ad esempio il vaccino di qualche anno fa contro il virus intestinale dei bambini nei paesi in via di sviluppo. Un problema enorme tra le principali cause di denutrizione e quindi di mortalità.

Una formula che funzionava ma che non era stata testata proprio sui bambini, per motivi etici e tecnici. È stato presto ritirato perché dannoso su una rilevante percentuale di bambini molto piccoli. Questo esempio per farle capire meglio la serietà di quello di cui stiamo parlando. Anche se si trattasse di una persona su 100mila, la larga scala comporterebbe una quantità di persone a rischio impossibile da ignorare».

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