Non c’è pace per Beirut. Dopo l’esplosione nubi tossiche, rischio amianto e allarme Coronavirus

Il racconto di Medici Senza Frontiere e di Greenpeace sull’emergenza sanitaria nella capitale del Libano

Sono passati dieci giorni dall’esplosione che ha devastato il porto di Beirut in Libano, provocando almeno 170 morti e migliaia di feriti, ma l’emergenza sanitaria non è ancora finita. Non ci sono “soltanto” i feriti a cui badare, il cui totale aumenta ogni giorno visto che, come spiega a Open la vice capo-missione di Medici Senza Frontiere nella capitale libanese Aria Danika, «anche pulire la propria casa è diventato pericoloso».


A complicare ulteriormente la situazione sono l’epidemia di Coronavirus, che nell’ultima settimana ha fatto registrare un nuovo aumento nei casi, e una nube tossica sprigionata dall’esplosione di nitrato di ammonio avvenuta nel porto della città.


Greenpeace | Una donna posa davanti alle macerie a Beirut

La pioggia arancione a Beirut

Quando il nitrato di ammonio esplode rilascia grandi quantità di diossido di azoto, un gas che ha effetti dannosi sul sistema respiratorio e può produrre un altro micidiale inquinante, l’ozono. Dopo l’esplosione, delle esalazioni arancioni hanno ricoperto la città e si sono spostate successivamente verso nord e verso l’entroterra, a est, a causa del vento. Gli effetti si sono fatti sentire anche a distanza di giorni, come ha spiegato a Open Julien Jreissati, program manager Greenpeace MENA, di origini libanesi e residente a Beirut.

«Ha piovuto pochi giorni fa – racconta Jreissati -, sei giorni dopo l’esplosione e si sono verificate precipitazioni arancioni, il che significa che era ancora nell’aria». Un problema ulteriore, visto che da circa un anno la città non è più dotata di una rete funzionante di stazioni di monitoraggio della qualità dell’aria. Ma la questione, secondo Jreissati, è anche un’altra e si nasconde nelle pareti e nelle mura delle case che sono state sventrate nell’esplosione.

«Nelle case abbiamo trovato molto amianto, soprattuto nei vecchi edifici – racconta Jreissati – e, come è noto, può essere cancerogeno. Purtroppo dal governo non arrivano informazioni precise e sono tanti gli interrogativi. Per esempio, non abbiamo idea se nell’esplosione siano bruciati anche altri materiali e se magari nell’aria ci siano altre sostanze tossiche».

Greenpeace | Il luogo dell’esplosione nel porto di Beirut

Coronavirus: +1.500 casi in una settimana

E poi c’è la Covid-19. Stando ai dati della John Hopkins University il Libano è stato quasi risparmiato dall’epidemia: le morti a causa Covid nel Paese sono 92, mentre i casi di contagio confermati sono 7.711. Ma, come racconta Aria Danika, nell’ultima settimana sono stati registrati circa 1.500 casi, quasi il 20% del totale. Per il momento non ci sono stati nuovi cluster nel porto, ma è ancora presto per capire se gli eventi degli ultimi dieci giorni possono aver creato nuovi focolai.

«La notte dell’evento dopo l’esplosione tutti correvano per aiutare e trasferire le persone all’ospedale più vicino, quindi naturalmente si sono creati assembramenti. Inoltre, l’esplosione ha provocato un afflusso di persone negli ospedali», racconta sempre Danika. La distruzione provocata ha inevitabilmente complicato la consegna di ogni tipo materiale sanitario, compresi i dispositivi di protezione individuale.

Ma per certi versi il Coronavirus rappresenta l’ultimo dei problemi dei libanesi, attanagliati da una crisi economica che già ad aprile aveva visto proteste in varie città del Paese. Anche prima dell’epidemia la disoccupazione era al 25% e circa un terzo delle persone vivevano sotto la soglia della povertà. Una situazione che è andata peggiorando con l’epidemia, soprattutto per le conseguenze economiche del lockdown.

«Abbiamo visto molte persone passare da forme di assistenza sanitaria private a quelle pubbliche a causa della crisi – racconta Danika – Le strutture sono più affollate e il sistema è sempre più appesantito. Lo è ancora di più dopo l’esplosione. Un ulteriore aumento nelle infezioni sarebbe un brutto colpo».

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