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Coronavirus, Cartabellotta (Gimbe): «Sì, la riapertura delle scuole è a rischio. In un mese raddoppiati i casi quotidiani» – L’intervista

18 Agosto 2020 - 07:16 Angela Gennaro
Per il presidente della Fondazione Gimbe, «l'aver riaperto posti come le discoteche mette a rischio la ripartenza delle scuole il 14 settembre». E sul prossimo monitoraggio: «Superati in cinque giorni i contagi registrati la scorsa settimana»

Il prossimo monitoraggio settimanale è atteso per giovedì 20 agosto. Ma un primo, preoccupante dato, il presidente della Fondazione Gimbe Nino Cartabellotta lo anticipa. «Di fatto abbiamo già superato ora, in cinque giorni, i casi di contagio da Coronavirus registrati la scorsa settimana in sette giorni», dice a Open.

La Fondazione Gimbe è un’organizzazione indipendente che dal 1996 «promuove l’integrazione delle migliori evidenze scientifiche in tutte le decisioni politiche». In tempi di pandemia è balzata agli onori delle cronache per la sua attività costante di analisi dei dati – frammentati, disomogenei, non sistematizzati – e per l’attivismo divulgativo, anche social, del suo presidente.

«Bisognerebbe dare più spazio ai sociologi», chiosa Cartabellotta pensando a negazionisti, relativisti, scettici e dintorni. Dall’inizio di aprile la Fondazione effettua un monitoraggio settimanale dei casi di Covid-19 in Italia basandosi sui dati diffusi quotidianamente da ministero della Salute e Protezione Civile. «Quello di sette giorni ci è sembrato un arco temporale congruo rispetto alla fluttuazioni dei tamponi effettuati e di altre variabili».

ANSA / LUIGI MISTRULLI | Nino Cartabellotta durante la Convention Fiaso 2018 a Palazzo dei Congressi all’Eur, Roma 08 Novembre 2018

Presidente Nino Cartabellotta, qual è la fotografia della pandemia che scatterebbe oggi in Italia?

«Siamo ora in quella che possiamo definire fase di circolazione endemica del virus. La fase di grande espressione clinica, quella che abbiamo vissuto a marzo e aprile, possiamo dire che si è conclusa. E con le riaperture scaglionate tra il 4 maggio, il 18 maggio e il 3 giugno, il Paese ha ripreso a vivere. Quello che secondo noi è però successo è che molti hanno scambiato il 3 giugno 2020 con una Festa della Liberazione: come se fosse il 25 aprile del 1945. Non è passato, o forse non è voluto passare – con l’arrivo dell’estate, i tanti mesi di lockdown e la voglia di riprendersi la vita – il messaggio che il virus continua a circolare e non ha alcuna modificazione di tipo genetico che lo renda meno aggressivo. Anche tutte queste chiacchiere fatte sulla carica virale fanno parte di studi singoli e non rappresentano una evidenza scientifica consolidata. Per cui l’impressione è che ci si sia un po’ lasciati andare: la mascherina, strumento importante nella prevenzione del contagio, è diventato un bavaglio imposto e una strumentalizzazione politica».

Possiamo dire, provocatoriamente, che l’aver scelto di riaprire posti come le discoteche mette a rischio la riapertura delle scuole il 14 settembre?

«Di fatto sì. Perché per il Paese la grande necessità è la riapertura delle scuole. E quello che è successo è che, con le deroghe regionali, questi 21 figli, questi 21 sistemi sanitari – 19 regioni e due province autonome – hanno dimostrato che hanno bisogno che il padre ogni tanto tiri loro le orecchie, altrimenti ognuno va per conto suo e a parità di situazioni vengono prese decisioni diverse. E la decisione politica è sempre molto difficile: deve trovare un equilibrio molto delicato tra salute ed economia».

Siamo circondati da Paesi che vedono risalire la curva dei contagi in maniera più rapida rispetto all’Italia ma che, come la Francia, avevano già riaperto le scuole, parzialmente o totalmente, da tempo.

«Ho sempre interpretato la questione della scuole in maniera politica, nella dinamica tra governo e Regioni, divisione che è poi uno dei grandi temi della gestione della pandemia in Italia. Da noi la scuola e l’università sono rimaste in coda, a differenza di altri Paesi. Qui le grosse pressioni sono venute dal rilancio dell’economia di alcuni settori, anche se avevano un rischio di contagi e di assembramento più elevato di altri. Dovendo raggiungere un equilibrio tra benefici e rischi e tra fatturato e rischio sanitario, forse bisognava essere un po’ più cauti. La grossa preoccupazione è che se si mantiene questa curva di contagi rischiamo di arrivare alla fatidica data del 14 settembre con numeri – di 1.000, 1.200 contagi al giorno – che potrebbero rimettere in discussione la riapertura stessa delle scuole. Ma queste per ora sono chiacchiere da corridoio».

Quindi, anche se ora il solo ipotizzarlo sembra ‘blasfemo’, sta dicendo che non riaprire le scuole potrebbe essere la cosa giusta da fare?

«La letteratura dice che la riapertura – o la non chiusura – delle scuole non ha un impatto dirompente sull’incremento della curva dei contagi, ovviamente se avviene con adeguate procedure di sicurezza che dovrebbero essere messe in atto. E sappiamo bene che la situazione italiana è abbastanza vetusta. Quindi la grande scommessa sarà quanto la scuola riuscirà ad organizzarsi in tempi brevi. I bambini contagiano e si contagiano ma si ammalano poco, anche se vediamo dai casi degli ultimi giorni che è un problema che esiste.

Cosa pensa della decisione – arrivata dopo Ferragosto di chiudere le discoteche?

È stato un compromesso. Si è aspettato Ferragosto e poi si è chiuso. È evidente che, con questa curva in crescita, realisticamente aumenterà ancora il numero dei casi. L’età media dei contagi si è abbassata. Gli anziani, da un lato, si stanno evidentemente proteggendo. Ora nessuno potrà mai dimostrare che l’età dei contagi si è abbassata – tra l’altro – per assembramenti come quelli delle discoteche. Però fenomeni che si osservano in parallelo fanno ragionevolmente presumere che possa esserci un rapporto di causa-effetto e di associazione. Dobbiamo vedere cosa accadrà nelle prossime settimane».

Come sta cambiando la curva dei contagi secondo i monitoraggi della Fondazione Gimbe?

«Se guardiamo alle prime tre settimane di luglio – dall’1 al 7, dall’8 al 14 e poi dal 15 al 21 – avevamo un numero di circa 1.400 casi settimanali: una media di circa 200 al giorno. Da fine luglio la curva ha ricominciato a salire: la settimana scorsa, fino all’11 agosto, abbiamo registrato quasi 3mila casi: quasi 400 al giorno, in media, ovvero il doppio. Quello che sfugge anche al dibattito pubblico e – devo dire – al decisore politico – che spesso dice: ‘vediamo come vanno i numeri e decidiamo se allentare o richiudere’ – è che quando contiamo oggi i contagi, parliamo di numeri relativi a quello che è successo da 3 a 4 settimane fa».

Quindi di che tipo di casi parliamo oggi?

«Casi autoctoni: gente che sta in Italia e che si continua a contagiare con modalità diverse. Poi ci sono i casi di rientro, ovvero gli italiani e le italiane che vanno in vacanza all’estero e lì si contagiano. E poi i casi di importazione, ovvero soggetti stranieri (sì, anche i migranti, che ne però costituiscono una quota veramente minima) che arrivano in Italia da altri Paesi o come turisti, o come lavoratori o altro e che di fatto fanno rientrare il virus. Il 55-60% del totale è costituito da casi autoctoni e l’altro 40% è composto da casi di importazione e di rientro».

I numeri ci dicono che la malattia è cambiata?

«No. Con il lockdown siamo arrivati quasi a un azzeramento degli ingressi in terapia intensiva, un po’ meno nelle ospedalizzazioni. Azzerando i contatti personali. Ora, mi permetta il paragone forse non consono, è come il gioco dell’oca: ripartiamo dal via. Riprendono i contatti sociali e quanto meno si deve stare attenti a misure come distanziamento e mascherina. È ovvio che è un serbatoio di contagi che cresce. In questo momento siamo nella fase di accumulo dei nuovi contagiati, quindi non aspettiamoci un’impennata delle terapie intensive da un giorno all’altro. Ma nelle ultime settimane si cominciano a muovere, seppur di poco, i numeri dei pazienti ospedalizzati e appunto in terapia intensiva: sono piccole spie del fatto che la crescita dei contagi avviene in maniera esponenziale. E ricordiamo sempre che noi vediamo solo la punta dell’iceberg, ci sono moltissime persone asintomatiche e positive che non sanno di esserlo. Il contagio aumenta ma non arriveremo alle scene di marzo e aprile».

Perché?

«Perché l’effetto sorpresa questa volta è impossibile per ovvie ragioni – allora siamo stati colti di sorpresa – e poi perché il Sistema Sanitario Nazionale è preparato. Siamo stati il Paese che ha fatto il lockdown più prolungato e più severo. Abbiamo abbattuto la curva dei contagi in maniera molto più efficace degli altri Paesi europei che hanno riaperto prima e hanno chiuso meno di noi. Però il segnale dice che stiamo risalendo».

In copertina ANSA/ETTORE FERRARI | Test a ‘Santa Maria della Pieta’, Asl Roma 1, 17 agosto 2020.

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