Il Decreto Dignità danneggia i lavoratori flessibili e non combatte il vero precariato – L’intervento

Finalmente decolla il dibattito sulla riforma del 2018: la risposta agli interventi di Marco Bentivogli e Gad Lerner

Dopo un silenzio assordante durato oltre due anni, sembra finalmente decollare un dibattito essenziale per il futuro prossimo del nostro mercato del lavoro: il Decreto Dignità ha mantenuto la promessa di ridurre il precariato oppure ha fallito la propria missione?


Marco Bentivogli, in un pezzo pubblicato lunedì scorso sulle pagine di la Repubblica, ha messo in evidenza i motivi per cui questa riforma avrebbe fallito la propria missione. L’intervento di Bentivogli ha stimolato una risposta, alquanto brutale e livorosa, da parte di Gad Lerner, che sulle pagine de Il Fatto Quotidiano di ieri ha pubblicato un accorato manifesto in difesa del Decreto Dignità. Manifesto che, al netto del livore personale che traspare verso Bentivogli, si fonda su una serie di clamorosi errori fattuali e concettuali.


La proliferazione dei contratti a termine e la piaga del precariato

Il primo errore sta nell’equazione che viene fatta tra la «..proliferazione dei contratti a termine…» e la «…piaga tutta italiana del precariato». Lerner probabilmente ignora un fatto essenziale. Non esiste (e non esisteva nel 2018) alcun allarme sui contratti a termine, le cui percentuali di utilizzo erano ampiamente in linea con le media delle principali economie europee.

Certamente, esisteva ed esiste un problema di precariato, ma questo si annida nei falsi contratti di collaborazione (che proliferano anche nelle redazioni giornalistiche, può sicuramente fare una piccola ricerca per verificare), nelle partite iva che mascherano la subordinazione, negli appalti utilizzati in maniera illecita e irregolare, nei contratti collettivi pirata.

Questi sono i fenomeni che generano il precariato, e di questi fenomeni non si è occupato minimamente il Decreto Dignità, che ha deciso di colpire gli unici contratti flessibili che garantiscono l’applicazione integrale dello statuto dei lavoratori, dei contratti collettivi, delle misure di sicurezza sul lavoro e di ogni altra tutela esistente. Talmente regolari che sono utilizzati solo nel mercato del lavoro regolare mentre sono ignorati dalle imprese che vivono ai limiti della legge.

Il Decreto Dignità ha combattuto, in altre parole, la battaglia giusta (il precariato è una piaga che va certamente colpita), ma ha colpito l’obiettivo sbagliato: per fare una similitudine, è un po’ quello che accade quando il legislatore decidere di “far pagare i ricchi” e poi alza le tasse sul lavoro dipendente dimenticandosi degli evasori fiscali, grandi e piccoli.

Le reazioni del sindacato e il ruolo del Jobs Act

Lerner prosegue affermando che la critica al Decreto Dignità «…lasci di stucco il mondo sindacale». Suggeriamo un rapido confronto con le varie anime del sindacato: scoprirà che sono moltissime le voci critiche verso il provvedimento, forse anche più numerose di quelle a favore.

Un altro fatto presentato come vero, ma piuttosto discutibile riguarda il presunto far west che sarebbe seguito all’approvazione del Jobs Act nel 2015: basta leggere le analisi statistiche per verificare che è falso. Ma non serve nemmeno scomodare i numeri: chiunque si occupa di lavoro sa bene che questi «commercialisti in azione per creare società di comodo» sono probabilmente il frutto di qualche B Movie, ma non rappresentano minimamente la normalità dei rapporti di lavoro.

Il decreto dignità e l’aumento del precariato

L’ultimo e più grande errore contenuto nell’invettiva di Lerner riguarda la “filosofia” del Decreto Dignità, che sarebbe un tentativo di arginare la volontà dei “padroni” aggiungendo tutele. È una lettura caricaturale che sicuramente può fare presa nell’immaginario collettivo ma è  profondamente sbagliata.

Il Decreto Dignità, nella sua applicazione concreta, non ha ridotto il precariato, ma lo ha raddoppiato. Vietando a un’azienda di proseguire il rapporto (salvo casi eccezionali) dopo 12 mesi è stato creato un meccanismo infernale che incentiva le “porte scorrevoli”: finiti i 12 mesi, se non c’è spazio per confermare la persona a tempo indeterminato, è sufficiente cambiare lavoratore per ricominciare un rapporto a termine. Insomma, dove c’era un lavoratore a termine con una prospettiva di farsi conoscere per 3 anni, ora c’è un incentivo alla sostituzione continua.

L’errore – confermato dai numeri che, prima della pandemia, dimostravano il fallimento complessivo della riforma – è talmente evidente che il Governo, con il Decreto Agosto, ha sterilizzato il meccanismo delle causali (il punto cardine del Decreto Dignità) fino alla fine dell’anno. C’è da scommetterci che tale sterilizzazione sarà allungata anche al 2021, per un semplice motivo: il mercato del lavoro oggi è congelato, gli ammortizzatori sociali di massa e il divieto di licenziamento hanno creato un muro altissimo  in entrata e in uscita dalle aziende. Muro che tutela chi era già tutelato, ma impedisce l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani e dei lavoratori che devono reinserirsi.

Gli unici ponti che possono aiutare le persone ad attraversare questo muro beneficiando di regole e tutele dignitose sono i rapporti a termine (compresa la somministrazione, che anzi offre ancora più tutele): se non si incentiva, entro regole certe, l’utilizzo di questi rapporti, si spingono i lavoratori più nelle braccia del vero precariato (le false cococo, partite iva, gli appalti illeciti ecc).

Attenzione, quindi, a lanciare slogan tanto facili quanto sbagliati: il mercato del lavoro non può essere governato con l’ideologia.

Immagine copertina di Vincenzo Monaco

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