Coronavirus, i numeri in chiaro. Tizzoni: «Non si può aspettare il peggio per aumentare la rapidità di diagnosi. Il confronto con marzo non ha senso»

di Giada Giorgi

Il ricercatore della Fondazione Isi tranquillizza sul paragone di dati con l’inizio della pandemia: «I dati sommersi erano 10 volte superiori a quelli pubblicati, ora è diverso»

Nelle ultime 24 ore sono 5.456 i nuovi contagiati da Coronavirus nel Paese. Certamente un calo rispetto ai 5.724, ma non abbastanza significativo se si considerano i 28.000 tamponi effettuati in meno. Una diminuzione giornaliera da valutare in maniera relativa dunque e che non riesce a smentire il preoccupante incremento della curva epidemica dell’ultimo periodo. «Di solito nel weekend si riscontra un numero minore di tamponi, domani, che è un lunedì, ce ne aspettiamo ancora di meno», ribadisce il ricercatore della Fondazione Isi, Michele Tizzoni, «ma quello che è da considerare ancora una volta è che il trend è in netto aumento».


«La crescita sostanziale del numero di casi mi sembra piuttosto chiara e non credo sia del tutto inattesa. Dalla metà di settembre le attività riavviate, dalla scuola ai luoghi di lavoro, hanno portato a una diffusione purtroppo omogenea in tutto il Paese».


Professore, il paragone con i numeri di marzo, molto simili a quelli attuali, fa non poco preoccupare. Anche se i dati dei ricoveri ordinari e delle terapie intensive continuano a essere per fortuna molto distanti. Come leggere la similitudine di casi con il periodo di inizio pandemia?

«Intanto chiedendosi se un confronto sia effettivamente possibile. E, considerando le caratteristiche dei due periodi, direi che le similitudini non sono poi così riscontrabili, neanche in numeri apparentemente uguali».

Per quale motivo?

«Per il sommerso. Non è sensato fare un confronto con il periodo iniziale di pandemia innanzitutto perché i tamponi che venivano eseguiti a marzo erano irrisori rispetto ad ora. Stiamo parlando di poche decine di migliaia al giorno e su casi, tra l’altro, con sintomi gravi e quindi più evidenti. Come è stato certificato anche dallo studio sierologico di Istat, il numero di casi reali di persone infettate in quelle settimane era enormemente più alto di quelli riportati. La curva di marzo andrebbe moltiplicata per un fattore 6. L’ultima settimana di febbraio, quando avevamo appena scoperto il virus, le nuove infezioni probabilmente erano anche 10 volte superiori a quelle che si riuscivano ad osservare con i tamponi.

Si capisce bene che anche i ricoveri e le terapie intensive andrebbero confrontate con numeri enormemente più grandi di quelli che sono stati riportati. La curva che vediamo adesso contiene anch’essa una sottostima, ma il sommerso è molto meno. La rappresentazione che abbiamo oggi rende conto in maniera molto più completa della diffusione del virus. Le due curve dunque non sono direttamente confrontabili in virtù di questa parte di sommerso.

Sul numero di ricoveri ordinari e terapie intensive si rilevano dati molto più bassi del periodo di marzo ed aprile. Spesso gli esperti puntano l’ago della bilancia proprio sul numero di ricoveri e quindi sulla presenza di sintomi gravi. L’incremento di oggi in relazione a questi fattori deve cominciare a preoccupare?

«Dobbiamo tenere ben presente che i numeri che vediamo nel bollettino giornaliero delle persone ricoverate si riferiscono a contagi avvenuti non certo oggi o ieri ma con una storia di trasmissione almeno di una settimana. Dunque il bollettino guarda al passato. Dei 5mila e più contagi di oggi una parte andrà in terapia intensiva in futuro e purtroppo riusciremo a registrarli tra un bel po’ di tempo. La parte di ospedalizzazione che vediamo attualmente è ancora sulla fascia bassa perché si tratta di persone contagiate nelle settimane scorse. Questo ci dice che è nel prossimo periodo che i numeri aumenteranno, perché ad aumentare sono stati anche i numeri dei positivi.

Il punto è che non dobbiamo aspettare che il dato delle terapie intensive cresca sui bollettini. Non possiamo aspettare che arrivi il peggio, perché a quel punto è tardi. Siamo già in un percorso che ci porterà al rilevamento di dati peggiori di questo, ecco perché è urgente agire sul sistema di tracciamento e di rilevamento, che in questo momento comincia a risentire dell’aumento dei contagi.

È nel contact tracing il problema principale?

«Se consideriamo l’aspetto di intervento e non quello comportamentale di ognuno di noi, direi di sì. La prima struttura sanitaria che viene messa sotto pressione dalla crescita dei contagi è il sistema di tracciamento. Il gran numero di asintomatici o paucisintomatici sicuramente contribuisce a questa difficoltà. Vedo percentuali di positività di tamponi che in diverse Regioni ha superato il 10%. Sono numeri molto alti che ci suggeriscono una difficoltà nel testare i nuovi contagi e i contatti a rischio. La tempestività è l’esigenza che adesso si rivela tra le più urgenti.

Dalla diagnosi del tampone alla notifica e all’isolamento della persona e dei contatti, idealmente, dovrebbero passar pochissimi giorni se non poche ore. Con l’aumento dei casi questo procedimento comincia a rallentare e ad affaticarsi, creando un corto circuito non poco pericoloso.

I ritardi nella notifica dei casi positivi sono aumentati e questo attualmente è uno dei problemi principali, insieme alle scelte individuali. La soluzione sta nel potenziamento dei servizi di assistenza locale, ma è chiaro che doveva essere una preoccupazione da porsi già prima, quando la curva dei contagi ci aveva concesso un periodo di tregua».

A questo proposito, nel nuovo dpcm del governo che potrebbe arrivare domani, la quarantena diminuisce da 14 a 10 giorni. Una scelta coerente con l’attuale situazione contagi?

«Non mi sento di contestare le valutazioni del Comitato tecnico scientifico ma quello che è certo è che qualunque sia il numero dei giorni, si dovrà inserire la scelta all’interno di una serie di decisioni coerenti. La diminuzione del periodo può essere ininfluente se la notifica stessa della messa in quarantena arriva comunque dopo una settimana dal tampone effettuato. Queste differenze tra 10 o 14 giorno diventano minime se il problema dei ritardi crescenti sta a monte. Senza contare ovviamente la disponibilità di tamponi da poter effettuare in tempi più brevi».

Mi sembra di capire che nella sua visione risultino importanti le soluzioni di screening di massa come i test rapidi, nonostante i dubbi di attendibilità al 100%.

«Senza dubbio. La battaglia si vince riuscendo a dare una risposta rapida, per quanto imperfetta».

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