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Nei documenti sul Recovery Fund torna il Ponte sullo Stretto. Ecco perché è (ancora) un progetto inconsistente – L’intervista

14 Ottobre 2020 - 06:16 Valerio Berra
Francesco Ramella è uno degli esperti che hanno firmato l’analisi costi-benefici che ha stroncato, almeno sui numeri, la Tav. A Open spiega come mai un’opera come il Ponte sullo Stretto non cambierebbe gli equilibri della mobilità nel Paese

«Struttura stabile e veloce sullo Stretto di Messina». Questa formula è scritta su uno dei documenti che dovrebbero definire le linee guida per utilizzare il Recovery Fund in Italia approvati dalla Commissione Bilancio della Camera dei deputati. Parole che evocano subito una delle chimere della politica italiana: il Ponte sullo Stretto. Anzi, il tunnel, stando alle parole del presidente del Consiglio Giuseppe Conte rilasciate ad agosto durante l’evento di Affaritaliani.it a Ceglie Messapica. Un progetto ufficiale non è mai partito, tanto che quest’opera è diventata un meme della politica italiana. Indimenticabile l’ingegner Cane, interpretato da Fabio De Luigi a Mai dire Gol che teorizzava un modello in peluche e uno in stile ponte levatoio. Di costi e benefici, di cifre da stanziare e miglioramenti per la mobilità, non si è quasi mai sentito parlare, come ci spiega Francesco Ramella, docente di Trasporti all’Università di Torino e direttore esecutivo di Bridgess Research. Ramella è anche uno dei cinque esperti che hanno firmato l’ultima analisi costi-benefici sulla Tav.

Nelle linee guida per il Recovery Plan si è tornati a parlare del Ponte sullo Stretto, nello specifico di una una «struttura stabile e veloce sullo Stretto di Messina».

«Credo ci sia una volontà di riaprire un vecchio dossier chiuso qualche anno fa dal presidente del Consiglio Mario Monti che lo aveva visto come un investimento poco opportuno. È un progetto che ogni tanto riemerge, era venuto fuori anche con Matteo Renzi e ora torna in superficie».

Il Ponte sullo Stretto è la chimera appoggiata da decenni sulle spalle della politica italiana. Anzi, forse da secoli, visto che già se ne parlava nelle guerre Puniche. È davvero un’opera così strategica per il Paese?

«Direi di no. Lo stesso concetto di opera strategica non fa riferimento a una realtà concreta. Fare il Ponte sullo Stretto non cambia le prospettive economiche del Paese. Esattamente come la Tav coinvolgerebbe solo una piccola parte della mobilità nazionale. Se vogliamo pensar male, si usa la parola “strategico” quando non si hanno argomenti economici per supportare una scelta».

Perché è difficile costruirlo?

«Su questo si sono espressi molti ingegneri. Sicuramente c’è il problema della sismicità dell’area ma il problema riguarderebbe più il tunnel. Il ponte è una struttura deformabile. É un’opera complicata ma dal punto di vista della fattibilità tecnica il ponte è meno complicato del tunnel di cui si è parlato recentemente».

Il tunnel non dovrebbe essere un progetto più efficiente?

«No.
Chi ha approfondito il tema ha espresso molte criticità. Il tunnel
per appoggiarsi sulla base marina dovrebbe essere molto lungo,
addirittura 25 chilometri mentre il ponte dovrebbe essere lungo solo
4 chilomentri. Quindi ha poco senso, perchè il tempo di trasporto
potrebbe essere superiore a quello attuale».

Vantaggi?

«Il vantaggio di tempo, se si parla di ponte, è stimato attorno all’ora e quindi corrisponderebbe a un risparmio economico, soprattutto per chi si occupa del trasporto merci. È un’opera che comporta dei benifci ma è una valutazione su cui bisogna guardare anche i costi. Le ultime cifre pubblicate su progetti per il ponte parlavano di otto miliardi di euro. Il problema delle proposte arrivate è che raramente hanno una base economica. Senza numeri non possiamo nemmeno cominciare un’analisi».

Come
mai quest’opera ha acquistato tratti così mitici?

«Credo
che ci sia un aspetto simbolico. È un’opera dal forte impatto
mediatico, dal punto di vista elettorale una grande opera porta più
consenso che fare tante piccole opere».

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