Il vuoto lasciato dalla Brexit nell’Unione Europea e i rischi per l’Italia

di Federico Bosco

Un rischio che riguarda direttamente l’Italia è che lo schema di concertazioni a tre (Regno Unito, Francia e Germania) sulle questioni internazionali, che si è visto con l’accordo sul nucleare iraniano diventi la nuova normalità

Stamattina i presidenti di Commissione e Consiglio europeo firmeranno l’accordo di commercio e cooperazione tra Unione europea e Regno Unito. Nelle stesse ore, la Camera dei Comuni discuterà il testo in attesa di ricevere il documento trasportato con un volo della RAF, e ratificarlo ufficialmente con il voto parlamentare. Il passo successivo è il voto del Parlamento europeo, presumibilmente tra febbraio e marzo. Indipendentemente da ciò, l’accordo entra in vigore in via provvisoria dal 1° gennaio. Quello che potrebbe venir ricordato come l’accordo della vigilia di Natale rientra nella categoria dei risultati positivi raggiunti dalla Commissione europea, ma resta comunque il primo caso di secessione dal progetto di integrazione europea, non può essere celebrato davvero come un successo.


Sul piano politico, Bruxelles è riuscita a limitare i danni ed evitare un effetto a catena. Le ripetute crisi di politica interna affrontate dal Regno Unito in questi quattro anni – in gran parte ancora da risolvere – hanno compromesso l’immaginario della Brexit trionfale e raffreddato gli animi dei partiti populisti ed euroscettici. La narrazione anti-Ue esiste ancora e specialmente in Italia il populismo è tutt’altro che morto, ma quelli che una volta promettevano di uscire dall’euro e dall’Ue adesso chiedono di rivedere le regole e promettono di cambiare l’Europa dall’interno.


A livello comunitario, il Regno Unito era tra i Paesi più attenti a tenere sotto controllo i conti, a tutelare la libertà del mercato, delle imprese e della finanza contenendo l’interferenza dei governi nelle economie. Sempre mantenendo un approccio complessivamente euroscettico, diffidente nei confronti di una maggiore integrazione e orizzonti euro-federalisti. Probabilmente, il Recovery Fund non sarebbe stato possibile nella sua forma attuale se ai tavoli del vertice di luglio fosse stato presente anche un premier britannico.

Il vuoto che si è venuto a creare con la Brexit però è stato riempito dal gruppo dei Paesi frugali, con il ruolo di guida assunto dai Paesi Bassi per tutelare gli interessi degli Stati membri più piccoli ma virtuosi, che non vogliono farsi dettare l’agenda dall’asse franco-tedesco, né tantomeno cedere nei confronti dei Paesi dell’Europa mediterranea. Il risultato si è visto con i limiti e i vincoli imposti sui meccanismi del Recovery Fund, e ancora di più si vedrà durante la sua attuazione, a partire dall’approvazione dei piani di rilancio nazionali.

La separazione da Londra segna anche un distacco psicologico e culturale i cui effetti sono difficili da comprendere adesso, e modifica gli equilibri geopolitici interni al Vecchio Continente rafforzando la centralità di Germania e Francia rispetto agli altri membri dell’Unione. Il Regno Unito ha svolto a lungo un ruolo speciale per l’Ue, insieme alla Francia sono le uniche potenze nucleari con un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Uno status che dal punto di vista geopolitico rimane intatto.

Sul piano strategico quindi l’Ue perde una potenza essenziale, e ciò potrebbe tradursi nella fine di ogni velleità di politica estera europea. Un rischio che riguarda direttamente l’Italia è che lo schema di concertazioni a tre (Regno Unito, Francia e Germania) sulle questioni internazionali che si è visto con l’accordo sul nucleare iraniano diventi la nuova normalità. Un asse Londra-Parigi-Berlino (E3) che si relaziona direttamente con Washington, bypassando Bruxelles, e Roma, che non sembra in grado di farsi percepire come il terzo grande Paese dell’Ue sul piano delle relazioni internazionali.

Infine, non è detto che la Brexit porti a una maggiore integrazione europea. Nonostante i risultati positivi ottenuti con il Recovery Fund, l’Ue continua a dare priorità alla coesione intergovernativa rispetto alla creazione di strumenti permanenti che scavalcano i poteri degli Stati nazionali. Il negoziato tra capi di governo, anche da prolungare per giorni se necessario, continua a essere la via preferenziale per risolvere le crisi dei veti incrociati. 

Il rischio è che superare la prova dello shock dell’uscita del Regno Unito possa far tornare nel dibattito europeo il concetto dell’Europa a più velocità, l’idea che un gruppo di Paesi possa attuare un percorso di integrazione rafforzata solo per chi ci sta (e ha i parametri per starci) a seconda della situazione politica ed economica. In parte è una realtà, per esempio esiste l’Eurozona ed esistono i paesi Ue che non fanno parte della moneta unica. Un tabù che è vacillato quando si è parlato di fare un Recovery Fund senza Polonia e Ungheria, non in linea con il rispetto dello stato di diritto. Se si applicasse un principio simile per il rispetto dei parametri di efficienza economica, non è detto l’Italia riesca a essere nel gruppo principale.

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