Il garante dei detenuti in Campania: «Nelle carceri le guardie usano il “metodo del branco”: chi denuncia paga caro» – L’intervista

Samuele Ciambriello denuncia da anni le condizioni negli istituti del territorio. Per lui la mattanza del 6 aprile 2020 è il risultato di «un approccio cinico» alla rieducazione. Che ha portato a silenzi e depistaggi

Samuele Ciambriello è il Garante dei diritti dei detenuti per la Regione Campania. Da anni le segnalazioni che raccoglie in dossier sulle condizioni nelle carceri del territorio sono spesso inascoltate. Lo abbiamo intervistato sui fatti di Santa Maria Capua Vetere che hanno portato sotto inchiesta 52 agenti di polizia penitenziaria per i pestaggi e le sevizie avvenute nell’istituto il 6 aprile 2020, dopo le proteste dei carcerati per i timori di contagio da Covid nella struttura. Dietro «all’offesa alla Costituzione» e al «cortocircuito» che la vicenda ha provocato a livello istituzionale, ci sono i depistaggi rilevati dall’inchiesta, un clima di «avversione» verso i 44 detenuti su 292 che «hanno avuto il coraggio di denunciare». Un’atmosfera che crea silenzi e approccio «cinici» nel Paese rispetto alla questione della rieducazione. Portando chi «sconta i suoi sbagli a vivere in un clima forcaiolo».


Sono anni che denuncia le condizioni nelle carceri campane, ma non cambia nulla. Perché?
A partire dalla questione del sovraffollamento, sono anni che riceviamo sanzioni dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Manca una riforma dell’ordinamento penitenziario da 10 anni e il tema viene affrontato con una distanza tra quello che è lo stato attuale degli istituti e ciò che dovrebbero essere secondo la Costituzione e le buone pratiche di rieducazione. Il cambiamento non avviene perché la politica e gli ultimi ministri della Giustizia hanno avuto un approccio cinico e pavido. Non trattano questi argomenti perché considerano il carcere una risposta semplice a bisogni concreti. Dal punto di vista sociale e culturale, sulle carceri c’è un clima negativo nel Paese.


Perciò abbiamo aspettato un anno e mezzo per vedere quei filmati?
Le indagini sono partite a ridosso dei fatti e dei filmati si sapeva già da giugno. Lo stesso quotidiano Domani scriveva dell’esistenza delle immagini già dallo scorso ottobre. I maltrattamenti e i depistaggi di quei giorni hanno creato un cortocircuito tra Roma e chi pensava di rimanere impunito. Poi, come emerge dalle stesse chat degli agenti al vaglio degli investigatori, tutti hanno capito che era accaduto qualcosa di terribile. Non si tratta di un gioco delle parti, ma il clima forcaiolo da “gettiamo la chiave” sulle carceri ha contribuito a malintesi e silenzi dannosi tanto quanto gli avvenimenti del 6 aprile 2020.

Poi ci sono i depistaggi. Tra questi, stando alle carte della Procura, emergono foto utili a simulare la presenza di armi rudimentali nelle carceri.
La presenza di armi, come fornellini e spranghe, dovevano fungere da attenuante all’operato. È importante segnalare che diversi agenti si sono ribellati al depistaggio fatto con le foto scattate dai loro colleghi. Cose del genere contribuiscono a dinamiche che spostano l’attenzione dalla necessità di rinnovamento del sistema carcerario. Nel luglio scorso, per esempio, Matteo Salvini in visita a Santa Maria Capua Vetere si rivolse alla stampa dicendo che «se usano coltelli e ti tirano l’olio bollente non puoi rispondere con le margherite».

Dai tabulati delle chat emerge il “Metodo Poggioreale”. C’è un preciso modus operandi nella gestione delle tensioni nelle carceri?
Poggioreale è il carcere più grande d’Europa e per ristabilire l’ordine le guardie applicano il metodo del “branco”. Questo intendevano nelle chat. In un qualsiasi carcere d’Italia se sgarri 6 o 7 guardie ti prendono e ti “dicono chi comanda. Per i comuni mortali è sconvolgente vedere gente inerme trattata in quel modo, ma questo è: gli agenti presi dall’esterno rientrano nella logica dell’utilizzo, in caso di rivolte negli istituti, del Nucleo Operativo d’Intervento. Che all’occorrenza raccoglie agenti nel territorio per risolvere scontri delicati. Nel caso di Santa Maria Capua Vetere, il comandante è ai domiciliari.

Come vive chi ha denunciato?
La costrizione in carcere è dura. Delle 292 persone abusate solo in 44, più alcuni familiari che sono andati dai carabinieri, hanno denunciato. Queste persone hanno avuto il coraggio e alcuni di loro sono stati trasferiti in altre strutture per questo. Chi è rimasto lì, invece, vive in un clima avverso. Lo stesso Vincenzo Cacace, alla ribalta della cronaca dopo le accuse poi smentite alla direttrice del carcere, lo ha detto. Lo percepisco ogni volta che sono ritornato in quel carcere. C’è anche chi comprende la necessità di questo coraggio. Agenti della Casa Circondariale di Bologna e di Secondigliano, per esempio, hanno espresso solidarietà ai detenuti e sui social hanno chiesto giustizia per l’oltraggio al vivere civile, oltre che alla divisa. Ma davanti a questa coscienza c’è il fatto che, nello stesso carcere di Santa Maria Capua Vetere, continuano a starci gli agenti inquisisti ma a piede libero. Delle 114 guardie penitenziarie che sarebbero coinvolte, infatti, solo 52 sono stati raggiunti dagli ordini di custodia della Procura.

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