Vaticano, al via il processo a Becciu e altre 9 persone: è la prima volta di un cardinale alla sbarra

Per numero di imputati e di ipotesi d’accusa è il maggior processo mai celebrato in Vaticano per reati in campo finanziario. Davanti al giudice anche quattro società

Per numero di imputati e di ipotesi d’accusa è il maggior processo mai celebrato in Vaticano per reati in campo finanziario, quello che inizia oggi 27 luglio (la seconda udienza è prevista per domani) nella Sala polifunzionale dei Musei Vaticani, allestita come Aula di tribunale. Ed è il primo che vede alla sbarra anche un cardinale, Giovanni Angelo Becciu, ex sostituto della Segreteria di Stato ed ex prefetto delle Cause dei Santi, primo nella storia ad essere processato in Vaticano da giudici laici, dopo la recente riforma di Papa Francesco che ha fatto piazza pulita degli antichi privilegi curiali e ‘licenziato’ dal Papa. Il processo sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato, ampliatosi molto dall’originaria vicenda investigativa dell’acquisto del palazzo di Sloane Avenue, a Londra, vede a giudizio dieci persone – tra cui prelati, funzionari della Santa Sede, finanzieri e manager – e quattro società, per reati che, a vario titolo, vanno dal peculato alla truffa, dall’abuso d’ufficio all’appropriazione indebita, dalla corruzione all’estorsione e altri.


Il caso del cardinale Becciu sui fondi dell’Obolo di San Pietro

Al centro c’è soprattutto quello che gli inquirenti vaticani hanno definito «un marcio sistema predatorio e lucrativo» a danno della stessa Segreteria di Stato e di suoi fondi caritativi come l’Obolo di San Pietro, con conseguenti gravi perdite per le casse vaticane, e che si sarebbe retto su «complicità e connivenze» tra operatori finanziari e consulenti esterni e addetti e dirigenti interni. Il cardinale Becciu, che va a giudizio con uno specifico benestare concesso da papa Francesco e che lo stesso Bergoglio, nell’udienza-shock del 24 settembre 2020, privò della carica di Curia e delle prerogative del cardinalato, è accusato di peculato e abuso d’ufficio, oltre che di «subornazione» di un testimone (mons. Alberto Perlasca, cui avrebbe cercato di far ritrattare le deposizioni accusatorie chiamando in aiuto il superiore gerarchico diocesano, il vescovo di Como Oscar Cantoni): risponderà in particolare dei bonifici per 575 mila euro fatti dalla Segreteria di Stato alla manager cagliaritana Cecilia Marogna, che sarebbero poi finiti in spese personali e oggetti di lusso, e i finanziamenti rivolti alla cooperativa del fratello Antonino (600 mila euro dai fondi Cei e 225 mila da quelli della Santa Sede). Becciu ha dichiarato di essere «vittima di una macchinazione ordita ai miei danni», deciso a «dimostrare al mondo la mia assoluta innocenza».


Gli altri imputati

Oltre a lui e alla manager Cecilia Marogna (anche lei accusata di peculato), devono comparire davanti alla Corte presieduta da Giuseppe Pignatone: lo svizzero René Bruelhart, ex presidente dell’Autorità di vigilanza finanziaria (abuso d’ufficio); mons. Mauro Carlino, già segretario di Becciu (estorsione e abuso d’ufficio); Enrico Crasso, l’uomo della finanza che da decenni aveva in gestione gli investimenti della Segreteria di Stato (peculato, corruzione, estorsione, riciclaggio e autoriciclaggio, truffa, abuso d’ufficio, falso materiale in atto pubblico e in scrittura privata); Tommaso Di Ruzza, ex direttore dell’Aif (peculato, abuso d’ufficio, violazione del segreto d’ufficio); Raffaele Mincione, il finanziere che fece sottoscrivere alla Segreteria di Stato importanti quote del fondo che possedeva l’immobile londinese, usando poi – secondo le accuse – il denaro ricevuto per suoi investimenti speculativi (peculato, truffa, abuso d’ufficio, appropriazione indebita e autoriciclaggio); Nicola Squillace, avvocato coinvolto nella trattativa (truffa, appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio); Fabrizio Tirabassi, minutante dell’ufficio amministrativo, cui è attribuito un ruolo da protagonista nella vicenda (corruzione, estorsione, peculato, truffa e abuso d’ufficio); Gianluigi Torzi, il finanziere chiamato ad aiutare la Santa Sede a uscire dal fondo di Mincione che sarebbe riuscito a farsi liquidare ben 15 milioni per restituire il palazzo ai legittimi proprietari (estorsione, peculato, truffa, appropriazione indebita, riciclaggio e autoriciclaggio). Il giudizio riguarderà anche quattro società: tre riconducibili a Enrico Crasso per l’accusa di truffa, e una a Marogna per il presunto peculato.

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