«Altro che deviati, qui si fa cultura». Da Bologna a Napoli, gli spazi occupati che hanno prodotto talenti – L’inchiesta

Angelo Mai, Scugnizzo Liberato, Làbas: ecco le voci di chi anima la produzione underground in Italia

Nelle ore in cui si discute animatamente del decreto anti-rave, tra rivendicazioni e richieste di rettifica di una norma giudicata da molti troppo interpretabile, abbiamo pensato di chiedere a qualcuno che gli spazi occupati li vive e anima di raccontarci il suo punto di vista. Mentre il concetto di spazio occupato viene spesso collegato a droga e problemi di ordine pubblico, spesso si tralascia il ruolo centrale che gli edifici autogestiti hanno svolto per la cultura underground. Forte Prenestino, Leoncavallo, l’Officina 99, sono solo alcuni delle più storiche e famose culle di creatività. Non è un mistero che da quegli ambienti siano nati artisti come Zerocalcare, pionieri dell’hip hop italiano come gli Isola Posse All Stars, per finire con i più classici 99 Posse. Da Napoli a Roma, arrivando fino a Bologna, ogni esperienza ha le proprie peculiarità. Ma esistono alcuni denominatori comuni: l’amore per il territorio, la promozione di una socialità interattiva, la valorizzazione di una cultura che continua ad essere in fermento, ma spesso viene respinta dai canali istituzionali.


Angelo Mai, Scugnizzo Liberato, Làbas: le storie

L’Angelo Mai è uno degli snodi culturali più longevi e prolifici di Roma, che da quasi vent’anni resiste a sgomberi e reiterate azioni giudiziarie. La sua storia è fatta di un braccio di ferro tuttora irrisolto con le istituzioni della Capitale. Nasce nel 2004 a Monti, con l’occupazione dell’omonimo ex istituto. Nel 2006 viene sgomberata la storica sede e al Collettivo viene assegnata una ex bocciofila nel Parco di San Sebastiano. Ci sono voluti tre anni per trasformare una struttura inizialmente «senza pavimenti, nè finestre» in quello che dal 2009 diventerà il nuovo fulcro propulsore. Ma l’assegnazione, avvenuta in epoca Veltroni, non è mai diventata «concessione»: «Per questa ambiguità burocratica, è impossibile non provare turbamento di fronte a un decreto dalla così ampia interpretabilità», racconta Sylvia De Fanti a Open, una delle fondatrici del Collettivo di Roma.


Una situazione analoga a quella vissuta dal collettivo che a Napoli anima lo spazio dello Scugnizzo Liberato. Nato anch’esso da un’occupazione abusiva, ha poi beneficiato della successiva delibera del Comune che inserisce i beni immobili “occupati” nella categoria di “beni comuni”, a condizione che esprimano un’utilità sociale. Giulia, 26 anni, fa parte del collettivo NaDir, che ha trovato la sua casa nello Scugnizzo Liberato. Ad Open racconta: «Tutto nasce quando nel 2015 un gruppo di attivisti si stabilisce nella struttura dell’ex carcere minorile Filangieri, una struttura abbandonata dal 1999».

Così come lo Scugnizzo Liberato, anche a Bologna il collettivo Làbas è riuscito negli anni a conquistare il diritto ad abitare il proprio spazio. «Làbas nasce nel 2012, con l’occupazione di un’ex caserma militare di 10mila metri quadrati in centro a Bologna, vuota da vent’anni», racconta Tommaso, 29 anni, tra i fondatori del collettivo. Làbas è stato protagonista di uno sgombero molto raccontato, nel 2017. Vicenda che stimolò l’ampio sostegno ricevuto dai cittadini del quartiere (e non solo): un appoggio «dovuto al lavoro quotidiano di relazione che avevamo costruito negli anni. Nacque persino un comitato di difesa dello spazio fatto da mamme, bambini, di cui non sapevamo nulla». Grazie al quale venne esercitata una pressione efficace alla creazione di «un bando, che abbiamo successivamente vinto, secondo le regole del gioco». Adesso, Làbas si trova «in uno spazio ripreso nel cuore della città universitaria, a 800 metri dalla sede originaria».

Incubatori di cultura

Tra le caratteristiche che accomunano queste tre realtà, vi è l’offerta culturale che sono in grado di erogare. L’Angelo Mai aggrega «musicisti, registi, attori, organizzatori di eventi», vantando una particolare attenzione alle tematiche femministe e Queer. È un teatro, ma anche un’accademia musicale, e non ultimo «una casa per creare» a disposizione di tutti gli artisti che non trovano spazio nelle sedi più sdoganate. Offre workshop e laboratori artistici, organizza spettacoli e concerti. Ha prodotto album e ottenuto importanti riconoscimenti, come il Premio Ubu Franco Quadri.

Lo Scugnizzo invece si è proposto sin da subito come un punto di aggregazione per l’artigianato: «Da subito si affacciarono una serie di artigiani che hanno ritrovato la possibilità di avere una bottega, orfani di una sede nel centro storico. Il piano terra del cortile dello stabile è animato principalmente da loro: si occupano di restauro, mosaici, oreficeria…», racconta ancora Giulia. Il resto della struttura ospita eventi, ma anche tornei di calcio, corsi di design, laboratori di progettazione e realizzazione di scarpe su misura e piccoli accessori in pelle.

A distinguere Làbas, invece, oltre agli eventi e all’offerta di una sala studio «nella perenne carenza di posti dove studiare in città», è stata «la proposta di un mercatino biologico, ante-litteram per l’epoca», racconta Tommaso. «Abbiamo creato, in cooperazione con realtà contadine che afferivano al circuito più o meno clandestino, un grande mercato settimanale che nel giro di pochi mesi era diventato un punto di riferimento per centinaia di persone. Anche del quartiere, quindi della Bologna bene: siamo riusciti a scalfire l’iniziale diffidenza». Oltre allo storico mercato, Làbas ha offerto un ampio ventaglio di servizi, dal Doposcuola per i bimbi di scuole elementari e medie a mercatini vintage dedicati alla compravendita, passando per sportelli psicologici e ambulatori odontoiatrici e medici.

Decreto anti-rave: un rischio concreto?

Queste realtà si sentono minacciate dalle manovre del nuovo governo? «È un problema per qualsiasi persona si professi democratica in questo Paese, per qualsiasi luogo che smuove cultura indipendente, pensiero critico», spiega De Fanti. Fa eco Tommaso: «Questo decreto è pericoloso perché trasforma il piano normativo, di regolamentazione tecnica, in un piano politico. Oltre al fatto che incide a dinamiche a noi molto vicine: quando organizziamo dibattiti in università o scendiamo in piazza a manifestare, siamo esattamente dentro un perimetro che qualcuno vorrebbe restringere». Ma, puntualizza Giulia, «non è la prima volta. Noi siamo allibiti dall’ipocrisia con cui una parte del centro-sinistra si scaglia oggi contro il decreto provando a forgiare la sua identità di opposizione. Mentre solo alcuni anni fa il Decreto Minniti (espressione di un governo a guida Pd) proponeva delle misure, come quelle del Daspo urbano, che a nostro avviso rappresentavano comunque un pericolo ed erano parimenti ambigue, facendo passare il messaggio che la marginalità sociale doveva essere solo allontanata e messa sotto il tappeto».

Le lacune riempite

Un tema che riecheggia anche nelle parole di De Fanti, che lamenta come per il loro lavoro «non ci sia mai stato il supporto delle istituzioni». Questo nonostante il loro operato vada a sopperire a un vuoto culturale profondo: «I punti di riferimento riconosciuti sono come monumenti: è faticosissimo farsi produrre, è faticosissimo girare. Non sono spazi vivi», racconta. Una situazione che non riguarda solo l’ambito teatrale, e non solo Roma. «L’offerta musicale di Napoli è sempre più in calo», conferma Michele, 26 anni, anche lui membro del collettivo NaDir. «Chi organizza i concerti accoglie ospiti solo se ne può derivare un ricavo, quindi è difficile trovare un modo per fare esprimere i progetti musicali minori, che tuttavia continuano a fiorire. Nei casi in cui invece questi eventi riescono a prendere vita, abbiamo spesso notato una carenza di assistenza tecnica: un concerto va organizzato nei minimi dettagli». Ed è qui che si inserisce il lavoro dal basso: «Noi abbiamo all’interno del collettivo svariati professionisti del settore, che fanno questo di lavoro tutti i giorni, quindi riusciamo a fornire un’assistenza tecnica adeguata, che non sminuisce il loro prodotto artistico».

Un’alternativa necessaria

Una logica abbracciata anche da Làbas, secondo le parole di Tommaso. «Tutta la nostra offerta si fonda su un’alternativa all’approccio verticale basato sulla fruizione passiva dei contenuti». Il tentativo, al contrario, è quello di riuscire a «stimolare un’interazione con i frequentatori del posto». Il bello di questi luoghi, a suo dire, è che da un limite, spesso quello economico, si riesce a generare un valore: la possibilità di approfondire un piano di ricerca, di novità, innovazione anche nella forma con cui si esprime l’arte. «In altre parti dove prevale la logica economica spesso questo non si crea. Il fatto che non ci sia nessuno che stacchi fatture per provvedere a determinate esigenze, come quella della strumentazione ad esempio, mette nella condizione di chiedersi: “come possiamo organizzarci?”. C’è un meccanismo di partecipazione che soppianta quello di consumo, nel processo culturale». Anche se la minaccia di sgombero ha accompagnato i loro primi anni di vita, adesso i luoghi raccontati hanno raggiunto una relativa stabilità. Ma, puntualizza Giulia, il decreto in discussione «sarebbe problematico anche se si riferisse unicamente ai rave. Perché rappresentano un bersaglio facile: sono frequentati da persone che nessuno vuole tra i piedi, o che una buona parte della borghesia nazionale benpensante non ha interesse a tutelare».

Credits foto copertina: profilo Facebook di Làbas

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