L’ultimo mistero di Matteo Messina Denaro: i pizzini del boss e la strana storia del Sisde

U Siccu non ha mai amato parlare di sé stesso. Eppure in carcere qualcosa ha detto. E negli anni ha raccontato le sue radici, i suoi affetti, il suo «labirinto». Come Diabolik ha beffato la polizia mentre «sfiorava» i servizi segreti

«Non amo parlare di me stesso. E poi è da anni che sono gli altri a parlare di me. Un uomo non può cambiare il proprio destino: l’importante è viverlo con dignità. So di aver vissuto da uomo vero». Dal giorno dell’arresto Matteo Messina Denaro è muto. Da quel poco che hanno saputo i giornalisti dai suoi carcerieri è preoccupato soprattutto per la sua salute. Anche se al suo arrivo a Le Costarelle non ha rinunciato alle battute tipiche del boss appena preso: «Precedenti? Fino a stanotte ero incensurato. Poi non so che è successo. Residenza? Mai avuta una». Prima di prendere l’aereo per L’Aquila all’aeroporto di Boccadifalco ha chiesto carta e penna per scrivere un appunto: «I carabinieri del Ros e del Gis mi hanno trattato con grande umanità». Con il procuratore Maurizio De Lucia e l’aggiunto Paolo Guido è stato più secco: «Non voglio collaborare». Con lo Stato.


«Fino a stanotte ero incensurato»

Il silenzio del boss è proverbiale. Mentre il padre Don Ciccio amava dire no con uno schiocco di lingua, è stata la sua capacità di non fare rumore a regalare una latitanza trentennale all’ultimo dei Corleonesi. Ma dietro questo silenzio c’è una strategia ben precisa. Così come dietro la scelta di nominare la nipote Lorenza Guttadauro come sua legale ma di non presentarsi in aula a Palermo qualche giorno dopo l’arresto. E di non andare nemmeno a Caltanissetta al processo d’appello per Capaci e via D’Amelio. Dai tempi delle prime indagini ‘U Siccu ha rinunciato a «perderci pure questi soldi» per un avvocato. «Non voglio difendermi», ha detto nel 1993. E lo ha fatto. Perché nella testa dei mafiosi quella ingaggiata con la strage di Capaci è una guerra allo Stato. «Quando si esprime sulla stagione delle stragi è genuinamente convinto che i magistrati abbiano effettuato un colpo di Stato. E che quella della mafia sia un’insurrezione contro un’ingiustizia. In questo senso è un idealista», ha detto di lui Michele Santoro su Open. Per questo Matteo Messina Denaro è muto. Perché è ancora in guerra con lo Stato. Ma proprio per questo le sue poche parole sono importanti. Attraverso quelle parole è possibile cercare di capire quello che pensa. E provare a rispondere alla domanda più difficile: perché lo ha fatto.


«Perché Lorenza non vuole vedermi?»

Quelle che ha detto ai dottori della chemioterapia sono le parole di un uomo che ha una comprensibile paura della morte: «Non creo problemi, ditemi cosa devo fare»; «non sono la persona che viene descritta». Ha chiesto «cure speciali», «che ci sono solo in Israele» per il tumore al colon. E ancora: «Non ho ricevuto una educazione culturale ma ho letto centinaia di libri, sono quindi informato sulle cure», «vi prego di poter essere trattato con farmaci e terapie migliori». Invece tra gli appunti finora incomprensibili ritrovati nei covi di Campobello di Mazara c’è una frase che risale agli ultimi giorni prima della cattura: «Perché Lorenza non vuole vedermi? Perché è arrabbiata con me?». In queste dieci parole c’è un’ipotesi di storia affascinante. Il padre che chiede alla figlia un incontro mentre si sottopone a chemioterapia e sa che potrebbe morire. La figlia gli risponde che no, non vuole vederlo dopo tutto questo tempo perché è arrabbiata con lui.

Ansa | I boss di Castelvetrano nascondono i “pizzini” destinati a Messina Denaro

Ma non c’è nessuna prova che Lorenza Alagna, nata nel 1996 dal rapporto del boss con Francesca detta Franca durante la latitanza, abbia avuto contatti con il padre. Mentre Lorenza Guttadauro è la figlia di Filippo Guttadauro e Rosalia Messina Denaro, sorella di Matteo. Ed è sposata con Luca Bellomo, che nel 2014 era finito in carcere con l’accusa di essere l’ultimo ambasciatore del padrino. La professionista ha anche difeso la zia Anna Patrizia e il fratello Francesco, arrestati con l’accusa di essere il braccio operativo del capomafia. Bisogna ricordare che il regime carcerario del 41 bis gli limita i contatti con l’esterno ma non gli impedisce di ricevere una visita al mese.

«In questo labirinto da cui non so come uscirò»

Quando scrive agli altri invece Iddu riesce ad essere persino lirico. «Non voglio nemmeno pensare di coinvolgerti in questo labirinto da cui non so come uscirò per il semplice fatto che non so come e quando ci sono entrato. Non pensare più a me, non ne vale la pena…», scrive all’amante Sonia M. che non distruggerà il pizzino. Giacomo Di Girolamo ha collezionato nel libro “L’invisibile” i necrologi usciti in occasione dell’anniversario della morte di Francesco Messina Denaro. Tra gli investigatori dell’Antimafia è circolata per anni l’ipotesi che fossero scritti da lui. Ecco l’elenco di quelli pubblicati ogni 30 novembre: nel 2002: «Esempio per la nostra vita». Nel 2003: «Beati i perseguitati perché è loro il regno dei Cieli (Matteo, 5,10)». Nel 2005 una citazione del De Rerum Natura di Lucrezio. Poi nel 2006 un passo de L’Ecclesiaste: «C’è un tempo per nascere e uno per morire ma solo chi lo vuole davvero riesce a volare e il tuo è stato il volo più alto». Nel 2007: «Ti vogliamo bene. Sei sempre nei nostri cuori». Dal 2010 invece ne esce uno in forma più sobria, con il nome e la firma «I tuoi cari».

Ansa | Francesco Messina Denaro

Ma per entrare davvero nel labirinto del generale di Cosa Nostra bisogna tornare all’ormai celebre carteggio con l’ex sindaco di Castelvetrano Antonio Vaccarino. Perché quei pizzini, frutto forse dell’unica volta in cui ‘U Siccu si è fatto fregare, costituiscono ancora oggi il modo migliore per capire quello che Messina Denaro pensa davvero. Sempre che siano veri, come dice qualcuno.

La storia di Vaccarino, Messina Denaro e il Sisde

La storia di Vaccarino, classe 1945, insegnante di educazione tecnica alle scuole medie, costituisce il punto di maggior contatto tra Diabolik e le istituzioni. Un racconto molto circostanziato dell’intera vicenda compare nel libro “Matteo Messina Denaro – Latitante di Stato” di Marco Bova. Nel maggio 2021 Vaccarino è morto di Covid-19 a Catanzaro mentre scontava una pena di sei anni. Il 6 maggio 1992 viene arrestato: un collaboratore di giustizia, Vincenzo Calcara, lo accusa di essere «il reggente della famiglia mafiosa di Castelvetrano». E dice a Paolo Borsellino che Vaccarino gli ha ordinato di ucciderlo «con un fucile da precisione anche da lunga distanza». Calcara aggiunge che ha partecipato all’omicidio di un altro ex sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, proprio su ordine di Vaccarino.

Quando Vincenzo Sinacori detto Ancidda (Anguilla) confesserà di averlo ucciso lui e anche che Calcara non ha mai fatto parte di Cosa Nostra quelle accuse cadranno. Nel frattempo però i Ros scoprono che Vaccarino è iscritto al Grande Oriente d’Italia e ad alcune logge in zona. Dopo alcuni anni di detenzione a Pianosa Vaccarino viene assolto dall’accusa di associazione mafiosa ma condannato per traffico di droga. Quando l’ex sindaco esce dal carcere Michele Filardo, cognato di Francesco Messina Denaro (che morirà nel 1998), gli dice che Don Ciccio vorrebbe vederlo anche se in quel periodo è latitante. Vaccarino si mette in testa l’idea di cancellare la macchia della condanna aiutando lo Stato a catturare «quel cretino di Matteo Messina Denaro».

«Dopo averla letta bruci questa lettera»

Il generale Mario Mori del Sisde sostiene in tribunale che il primo contatto con Vaccarino avviene nel 2003. Nel 2012 Vaccarino dice che per contattare il fratello maggiore di Matteo, Salvatore, si fece aiutare dal dottore (e massone) Alfonso Tumbarello. Ovvero lo stesso Tumbarello oggi indagato nell’inchiesta sulla latitanza di Messina Denaro a Campobello di Mazara. La genesi dello scambio epistolare risale al 2001. Prima Vaccarino incontra Salvatore a cui prospetta l’idea di entrare nel progetto di realizzazione di un’area di servizio in zona Costa Gaia sulla A29. Quando il fratello maggiore viene arrestato Vaccarino si incontra con la sorella Anna Patrizia. Suo marito Vincenzo Panicola gli consegna un pizzino «tutto arrotolato nello scotch», impossibile da aprire se non con un taglierino o con delle forbici. La lettera reca la data del primo ottobre 2004 e inizia con la frase «Per Svetonio, carissimo amico mio».

Servizi & Segreti: sono davvero suoi quei pizzini?

Prima di continuare però dobbiamo andare un po’ avanti nel tempo. Lo stesso Vaccarino dirà a Bova che aveva pensato che Messina Denaro lo avesse ribattezzato Svetonio perché amava le citazioni in latino. Nel covo di ‘U Siccu sono stati trovati libri di storia e filosofia. Lui stesso dirà che durante la latitanza ha letto moltissimi libri. Poi l’ex sindaco ha pensato che i nomi di letterati latini come Rutilius e Catullo erano utilizzati dai Servizi per indicare Arnaldo La Barbera e Bruno Contrada. E ancora: una perizia tecnografica del 2007 ha comparato alcune lettere di Messina Denaro trovate a Provenzano e ai Lo Piccolo con quelle consegnate da Vaccarino al Sisde. Ha stabilito che sono tutte scritte dalla medesima persona che non è il latitante. L’idea che si fanno gli investigatori è che Messina Denaro si sia sempre servito di qualcuno per scrivere. L’identità di questa persona non è mai stata accertata.

Ansa | I pizzini di Messina Denaro ritrovati ai Lo Piccolo

L’agente del Sisde che parlava con Messina Denaro

Sempre nel “Latitante di Stato” si ricorda una circostanza ancora più inquietante. In un servizio di Report a firma di Paolo Mondani una fonte coperta racconta di un amico che da giovane «è stato carabiniere, un ufficiale, poi per tutta la vita ha lavorato in banca sotto copertura: in realtà era dei Servizi». Questa persona, che faceva da collegamento tra i boss e lo Stato, «parlava con Messina Denaro. Si incontravano qualche volta nei momenti topici. Di quelle lettere si è occupato il mio amico. Lui scriveva le lettere di Matteo Messina Denaro». Insomma, le presunte lettere di Messina Denaro in realtà farebbero parte di una manovra del Sisde. Chissà se sono sue. Anche perché sarebbero «troppo vere». Nel senso che descrivono esattamente come dovrebbe pensarla il boss in base alle analisi del suo profilo fatte dai criminologi negli anni. Eppure anche questa tesi viene messa a dura prova dallo sviluppo della storia. Che vedremo tra un po’. Adesso è il momento di leggere le presunte parole dell’ultimo dei Corleonesi.

«Io non sono come la gente, ho lottato per i miei ideali»

Il presunto Messina Denaro che si racconta nei falsi-veri pizzini con Vaccarino ha le idee chiare dal punto di vista politico. Così descrive il decennio di lotta alla mafia: «In Italia c’è stato un colpo di Stato tinto di rosso di alcuni magistrati con pezzi della politica. Descrivono la Sicilia come un’orda di delinquenti e una masnada di criminali ma ha più storia la Sicilia che lo Stato italiano». Il wanna-be ‘U Siccu ha le idee chiarissime sull’attualità: «Non ci sono più politici di razza; l’unico a mia memoria fu Craxi e abbiamo visto che fine gli hanno fatto fare. Oggi per essere un politico basta che faccia antimafia, più urla e più strada fa. I politici più abietti sono quelli siciliani che hanno sempre venduto questa terra al potente di turno». E poi, con un riferimento a Berlusconi: «Tra quelli che dirigono il paese non vedo uomini, solo molluschi, opportunisti che si piegano come fuscelli al vento. Il peggiore è chi ne sta a capo, un volgare venditore di fumo». I falsi-veri pizzini a Vaccarino sono l’occasione giusta per far riemergere il Diabolik idealista: «Fossi nato due secoli fa avrei fatto una rivoluzione ma oggi c’è quello che chiamano progresso: la gente è attaccata ai soldi, non ha ideali, non ama la terra dove è nata. Io non sono come la gente, ho lottato per i miei ideali anche se erano invisi alle masse; e sappiamo che fine fanno gli idealisti».

«Nelle carceri praticano la tortura»

Il Messina Denaro che invece sarebbe un agente del Sisde è esattamente quello che stava sulle ginocchia di Riina: «Quando uno stato ricorre alla tortura per vendetta che stato è. Uno stato che fonda la giustizia sulla delazione che stato è. Hanno istituito il 41 bis e hanno sospeso i diritti dei carcerati, nelle carceri praticano la tortura. È un paese civile che fa questo? Facciano pure ma ci sarà sempre chi non svenderà la sua dignità». E ancora: «Forse un giorno si abolirà l’ergastolo ma non si rivedrà la nostra posizione nei processi. Io ho condanne assurde senza uno straccio di prova oggettiva, solo due pentiti contro di me che dicono la stessa cosa e a volte basta un pentito solo o più pentiti che si contraddicono». Poi dal politico il presunto Diabolik passa al biografico: «Ho revocato i miei avvocati e non mi difenderò più, facciano quello che vogliono. La mia non è una sfida, non lancio sfide con le scartoffie, per me la sfida ha un valore nobile». E c’è spazio persino per una frase che potrebbe finire ovunque: «Parlano di legalità ma vogliono piegarci alle loro regole e ai loro interessi. La storia la scrive chi vince e loro hanno vinto. Noi non abbiamo più niente da offrire chi si sporcherebbe la bocca per noi? Nessuno».

Rai | Antonio Vaccarino in un frame di un’intervista a Servizio Pubblico

«Non ho perdonato ciò che non si poteva perdonare»

In altri presunti brani affiora invece il Messina Denaro delle radici: «Ho vissuto nel rispetto di chi mi ha educato e fatto da maestro. Grazie a mio padre ho visto ciò che la vita mi ha dato e non ho girato la faccia dall’altra parte e non ho perdonato ciò che non si poteva perdonare». Dopo il padre c’è la madre: «La mia mamma ci ha cresciuto nella fede ma a un certo punto Dio non c’era più nella mia vita o forse non gli andava di guardare giù quando si trattava di me. Ma se Dio ha creato il mondo ha creato anche me e ha deciso il mio destino». E c’è anche una parola per Lorenza Alagna, l’unico giudice a cui si sottometterà: «Mia figlia non l’ho mai vista; ha il destino di essere orfana di padre. Se la vita ha tolto a me per dare a lei mi sta bene. Può prendersi tutto ciò che mi resta per darlo a lei. Quando crescerà sarà in grado di capire e potrà giudicarmi. Non accetto il giudizio dei tribunali ma accetterò il giudizio di mia figlia».

«Con la morte ho un rapporto particolare»

Alcune frasi hanno un tratto autobiografico: «Ho il rimpianto di non aver studiato, di aver lasciato la scuola. Se potessi tornare indietro conseguirei la laurea ma non perché vorrei un’altra vita, solo per me stesso. Mi resta la lettura anche perché la stupidità mi da fastidio e preferisco starmene a distanza un po’ da tutti, facendo conto solo sulle mie capacità». E il racconto di sé stesso: «Non so se sono stato un grande uomo ma mi sono dovuto misurare con la mediocrità degli altri e, per difendere la mia indipendenza, ho conosciuto la disperazione pura, la solitudine, l’inferno. Sono caduto mille volte e mille volte mi sono rialzato. Sono caduto nella polvere e me ne sono nutrito. Ho conosciuto l’ingratitudine e la solitudine mi ha reso ciò che sono». E toccano la paura della morte, ma in modo diverso dall’Andrea Bonafede che si recava a La Maddalena: «Con la morte ho un rapporto particolare. Da ragazzo la sfidavo con leggerezza da incosciente, da uomo maturo la prendo a calci in testa perché non la temo. Non è una questione di coraggio. Semplicemente non amo la vita. Teme la morte chi sta bene su questa terra e ha qualcosa da perdere. Io non ci sto bene su questa terra, il mondo così com’è non mi appartiene. Quando la morte verrà mi troverà a testa alta e sarà uno dei pochi momenti felici che ho vissuto».

«Ho un codice d’onore da rispettare»

Il frammento di pensiero più forte del presunto Messina Denaro è la sua autoassoluzione: «Solo Dio può conoscere il vero significato delle mie azioni. Io ho fatto ciò che mi sembrava giusto per me, per la mia famiglia e per tutti; e sono a posto con la mia coscienza: morirò da uomo giusto. Il resto non ha nessun valore». Che evidentemente è più forte di qualsiasi altra cosa: «Lei dice di volermi accompagnare in un angolo di Paradiso. Io non posso andarci in quell’angolo di Paradiso. Morirei dentro di me. Non tradirò mai i miei principi, ho un codice d’onore da rispettare, lo devo a Papà, lo devo ai tanti amici che sono rinchiusi e che hanno ancora bisogno di me. Lo devo a me stesso per tutto quello in cui ho creduto, lo devo alla vita che ho scelto di fare. Potevo sparire nel nulla ma non lascerò mai la mia terra».

L’ultima lettera: «La sua famiglia è nel mio testamento»

La storia dei presunti pizzini a Vaccarino continua. L’11 aprile 2006 la polizia arresta Bernardo Provenzano in una masseria a Montagna dei Cavalli vicino a Corleone. Nell’occasione vengono trovati anche i pizzini che riceveva, e che incredibilmente Binnu ‘U Tratturi non ha distrutto. Tra questi anche quelli di Messina Denaro, il quale nei messaggi parla anche della sua corrispondenza con Vaccarino. E mostra di non sapere nulla della collaborazione tra l’ex sindaco di Castelvetrano e il Sisde. Il finto-vero Siccu a quel punto manda un altro pizzino proprio a Vaccarino. Avvertendolo del fatto che viene nominato nella corrispondenza con Binnu. Ma questo lui già lo sa. Perché nel frattempo sta venendo fuori l’operazione con il Sisde. Quando la storia finisce sui giornali però finalmente Diabolik mangia la foglia. Nel novembre 2007 Vaccarino riceve un’altra lettera. Ma stavolta è spedita con raccomandata da un ufficio postale. Il presunto boss è furioso. Lo chiama per cognome senza confidenza in una pagina e mezza scritta al computer. «Lei è e resterà sempre un “29 euro”, non dico “30” perché non sono Gesù Cristo».

Il Messina Denaro Furioso

Nel presunto Messina Denaro Furioso riecheggiano ancora le (vere) parole di Riina: il sindaco voleva «riabilitarsi verso i buoni? Ma chi sono i buoni? Forse lo ha deciso lei chi sono i buoni? Non si confonda, non sono i buoni, sono i più forti, che è cosa ben diversa». Poi lo accusa esattamente di ciò di cui Vaccarino voleva essere riabilitato: «Vero è che lei non è un mafioso, ma è anche vero che da sempre è stato intimo con i mafiosi, quelli come lei credo oggi si chiamino collusi, lei da sempre era in affari con i mafiosi, d’altronde allora erano i più forti». Di più: ben sapendo che quella lettera prima o poi finirà in mano ai poliziotti, Messina Denaro lo accusa dell’assassinio del sindaco Vito Lipari. Ovvero prova a far credere ai giudici che lo leggeranno che il sindaco è davvero colpevole di quell’omicidio. Fornendo anche il movente: «lei era relegato in un angolo e non aveva visibilità (politica, ndr). È stata la sua ambizione umana e politica a farla diventare mandante di un omicidio». All’ex Svetonio il caro Alessio dà del «misero omuncolo soggiogato da qualcuno di gran lunga più intelligente di lei» (il Sisde?).

L’ultimo mistero di Messina Denaro

Infine la minaccia più terribile che possa arrivare da un mafioso: «Ha buttato la sua famiglia in un inferno. […] Sarò io a farle pervenire la mia risposta, le assicuro con assoluta certezza che lei riceverà questa mia risposta, fosse anche l’ultima cosa che farò nella mia vita. […] La sua illustre persona fa già parte del mio testamento, ed in mia mancanza verrà sempre qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti». La firma con l’iniziale e il cognome non prova nulla. Gli argomenti e i metodi sembrano proprio quelli di via Alberto Mario a Castelvetrano. L’intera storia della corrispondenza tra Alessio e Svetonio è l’ultimo mistero che accompagna le leggende (metropolitane?) su Matteo Messina Denaro.

Le indagini dell’Antimafia hanno portato negli anni a individuare numerosi fiancheggiatori di Iddu. Strano, stranissimo che ancora non sia stato trovato chi scriveva (per lui?) quelle lettere. L’unico che potrebbe dare una risposta certa è lui stesso. Ma il boss è muto. Per i suoi gusti ha parlato già troppo. E poi se dicesse qualcosa magari potrebbero pensare che lo fa come ha accusato Vaccarino dell’omicidio Lipari: con un secondo fine. E così in questa storia rimarranno tutti i dubbi che hanno accompagnato la sua latitanza. Quelli sulla protezione avuta dai massoni e quelli che hanno fatto pensare alla pm Teresa Principato che alla fine Messina Denaro «non lo volessero arrestare».

La finta devozione per Binnu ‘U Tratturi

Gli ultimi scritti attribuiti a Messina Denaro sono quelli trovati nel covo di Provenzano. In quei pizzini in cui si firma «suo nipote Alessio» Diabolik parla all’ultimo corleonese rimasto fuori della banda di Totò Riina. Sono datati tra 2003 e 2006. «Io appartengo a lei, per come d’altronde è sempre stato, io ho sempre una via che è la vostra, sono nato in questo modo e morirò in questo modo, è una certezza ciò», gli scrive. Mentre già da anni in Cosa Nostra si maligna sulle presunte responsabilità di Binnu nell’arresto del Capo dei Capi, ‘U Siccu lo definisce «il garante di noi tutti», «per l’armonia e la pace di tutti noi».

Uno che già all’epoca veniva considerato l’apprendista Padrino per eccellenza di Provenzano parla con sentimento: «Lei è sempre nel mio cuore e nei miei pensieri, se ha bisogno di qualcosa da me è superfluo dire che sono a sua completa disposizione e sempre lo sarò. La prego di stare sempre molto attento, le voglio troppo bene». È esageratamente devoto: «Qualsiasi sua decisione andrà benissimo perché lei può disporre di me come un figlio». Anche se riecheggia qualcosa della corrispondenza con Vaccarino: «Noi sappiamo come sono i politici che non fanno niente per niente e noi non abbiamo più alcuna forza di contrattualità, ecco perché non credo che ci sia qualche politico che si vada a sporcare la bocca per noi, comunque come si suole dire staremo a vedere».

Ansa | Il boss Bernardo Provenzano da giovane e dopo la sua cattura

Chi è davvero Messina Denaro

«Io sono un niente, un perdente, ma se qualcuno avrà bisogno di questo niente sono a sua disposizione», scriveva il presunto Matteo Messina Denaro al sindaco Vaccarino. «Non ho più sogni ma combatterò fino all’ultimo istante, fino all’ultimo respiro. Da protagonista», prometteva. Nei suoi piani forse c’era l’idea di fare come Don Ciccio. Farsi ritrovare vestito di tutto punto per il funerale: «Manco di morto unnarrinisceru a pigghiariti». Il tumore al colon ha abbassato le difese di Iddu. Che nel frattempo ha cominciato a soffrire per la figlia: «Perché Lorenza non vuole vedermi?».

L’ultimo dei Corleonesi è un uomo malato. Che prende automaticamente le sue precauzioni per la latitanza aiutato dai suoi Golem. Ma poi non resiste alla modernità di un selfie con il personale della clinica. Messina Denaro non si è «fatto prendere». Ma il cancro lo ha indotto ad arrendersi. E chiunque abbia conosciuto la malattia in qualche modo da vicino non può che capirlo. Dagli scritti che ha lasciato e dalla biografia giudiziaria che gli è stata attribuita (e sulla quale lui non concorderà affatto) abbiamo imparato a conoscere chi è davvero Matteo Messina Denaro.

L’autoritratto

È il ragazzo sveglio e bravo a scuola che ama leggere. Quello che impara a sparare a 14 anni e uccide per la prima volta a 17. Il figlio maschio che Don Ciccio sceglie come suo successore. Il figlioccio di Riina, che lo tiene sulle sue ginocchia. Il soldato del Capo dei Capi, convinto che quella della Belva sia una guerra giusta contro uno Stato che non rispetta le sue stesse regole. In questo senso è un idealista. Poi viene promosso a generale e si perde nel labirinto della sua latitanza: «Un labirinto da cui non so come uscirò per il semplice fatto che non so come e quando ci sono entrato». Trasforma Cosa Nostra in una Cosa Grigia. Fa i soldi persino con «i pali della luce», anche se se li dovrebbe «mettere in culo». Quando piove impara a non bagnarsi passando tra goccia e goccia. Ripulisce i soldi dei mafiosi negli uffici finanziari. Investe nel gioco come un imprenditore. Fa la guerra allo Stato perché pensa di avere ragione. È consapevole che ha perso. E con lui hanno perso i suoi padri e i suoi nonni. «Fossi nato due secoli fa avrei fatto una rivoluzione», dice. «Ho lottato per i miei ideali anche se erano invisi alle masse; e sappiamo che fine fanno gli idealisti», sostiene. In realtà ha ucciso o fatto uccidere centinaia di innocenti. E ha portato l’«organizzazione» nel Terzo Millennio.

L’inizio e la fine

Ma la mafia «è un fatto umano, e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine». Forse aspetterà di morire in carcere, in silenzio come lo sono stati i suoi padri, i suoi zii, i suoi familiari. Per portarsi nella tomba i suoi segreti e i suoi misteri. «Non voglio collaborare», lo ha già detto. Non è uno che si pente. È un duro come Don Ciccio. Come Zu’ Totò, che si sentiva solo «un povero contadino». O forse riuscirà a convincerlo Lorenza. Lo ha detto lui stesso: «Non accetto il giudizio dei tribunali ma accetterò il giudizio di mia figlia». Sempre che lo voglia anche lei. Altrimenti resterà seppellito al 41 bis. Forse prima di morire tornerà a pensare alle masserie con gli uliveti e gli aranci dove da ragazzino passava l’estate a Castelvetrano. E a tutto quello che poteva essere e non è stato.

(3 – Fine. Le puntate precedenti: 1 – Chi è davvero Matteo Messina Denaro: piccola storia dell’ultimo dei Corleonesi dalla gioventù da viveur alla maturità stragista2Matteo Messina Denaro Story: così lo stragista seduto sulle ginocchia di Riina ha trasformato Cosa Nostra in una Cosa Grigia

Fonti: L’invisibile. Matteo Messina Denaro – Giacomo Di Girolamo, Il Saggiatore, 2017; Nient’altro che la verità – Michele Santoro, Guido Ruotolo, Feltrinelli, 2021; Matteo Messina Denaro, latitante di Stato – Marco Bova, Ponte alle Grazie, 2021; Lo chiamano ‘U SiccuMalitalia, 2012

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