Lavoro, la Cassazione inguaia il governo: «Illegali contratti che negano una paga degna, è ora di introdurre il salario minimo»

La pronuncia dell’alta Corte precede il parere del Cnel chiesto da Meloni. Schlein esulta: «Sentenza storica»

In attesa che le riflessioni della politica facciano il loro corso – al momento il governo ha messo il tema in standby sottoponendolo all’analisi del Cnel – a indicare la via per l’Italia sul tema del salario minimo è la Cassazione. Nella settimana del nuovo duro scontro tra governo e magistratura sul tema dei migranti, arriva una nuova sentenza destinata a far discutere, e molto. Accogliendo il ricorso di un lavoratore della vigilanza privata di Torino, l’alta Corte ha stabilito che i contratti collettivi nazionali di lavoro, nonostante la libertà negoziale, non possono prevedere minimi salariali che non siano «proporzionati alla quantità e qualità del lavoro e sufficienti ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» così come prevede la Costituzione all’articolo 36. È necessario invece, sottolinea la Cassazione, fissare una cifra che risulti adeguata a tali necessità di base: un «salario minimo costituzionale» in grado di garantire «una vita libera e dignitosa e non solo non povera». Basta, quindi, a quei contratti che condannano i dipendenti italiani alla «povertà nonostante il lavoro». Via libera invece alla fissazione di un salario minimo nazionale, spronano i giudici.


L’esultanza delle opposizioni

Ma come andrà calcolato – è la domanda cruciale – tale importo? Tenendo conto, risponde la Cassazione, dei contratti collettivi di settori affini a quello in esame, ma anche della soglia di povertà calcolata dall’Istat come limite minimo inderogabile. La contrattazione collettiva “standard”, insomma, non è sufficiente a garantire un salario degno a tutti i lavoratori. Una sentenza quella della Cassazione subito salutata come una svolta dalle opposizioni, che nei mesi scorsi hanno presentato una proposta congiunta in Parlamento e poi una petizione online a sostegno dell’introduzione del salario minimo. «Arriva dalla Cassazione, con una sentenza storica, una indicazione che conferma la necessità e l’urgenza di stabilire un salario minimo secondo i principi stabiliti dalla Costituzione», esulta la segretaria del Pd Elly Schlein, che sottolinea come «la contrattazione collettiva, specie in alcuni settori, va sostenuta, affinché sia sempre garantito a chi deve lavorare per vivere il diritto a un’esistenza dignitosa». Per la leader dem, «il governo su questo tema continua invece a fare il gioco delle tre carte, incurante delle condizioni reali di tante lavoratrici e lavoratori in questo Paese. Il lavoro povero esiste e lo vivono sulla propria pelle milioni di persone. Noi saremo al loro fianco ogni giorno finché non otterremo un salario giusto e dignitoso». Più pacata ma comunque positiva la reazione di Carlo Calenda: «Con la sentenza che conferma la necessità di un salario minimo legale, la Cassazione è arrivata dove invece fino a ora il Governo ha temporeggiato. Una decisione importante, che semplicemente riafferma quanto da tempo denunciamo sul lavoro povero», ha scritto in una nota il leader di Azione, per poi spronare il Parlamento: «Basta ritardi: dimostriamo che anche la politica sa riconoscere che il diritto a uno stipendio dignitoso è garantito da Costituzione».


L’iter della causa finita in Cassazione

Il sorvegliante della vigilanza privata è dipendente di una cooperativa messa dallo scorso 19 giugno sotto controllo giudiziario dal gip di Milano. L’uomo aveva fatto ricorso al Tribunale di Torino, lamentando la retribuzione troppo bassa e chiedendo che fosse accertato il suo diritto a percepire un trattamento retributivo di base non inferiore a quello del Ccnl dei dipendenti dei proprietari di fabbricati, ossia i portieri. In primo grado, il giudice aveva accolto la richiesta di Angelo M. e condannato la società cooperativa ‘Servizi fiduciari’ – ex ‘Sicuritalia servizi fiduciari’ – a pagargli oltre venti anni di differenze retributive. Poi però, la Corte di appello di Torino con sentenza del luglio 2022, aveva fatto marcia indietro affermando che «vanno esclusi dalla valutazione di conformità all’art. 36 della Costituzione quei rapporti di lavoro che sono regolati dai contratti collettivi propri del settore di operatività e sono siglati da organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale». Tesi questa demolita oggi dalla Cassazione, che fa presente come in materia di adeguatezza dei salari non si può non tenere conto, ad esempio, della Direttiva Ue 2022/2041 che ha come primo obiettivo dichiarato quello della «convergenza sociale verso l’alto dei salari minimi», considerato che questi contribuiscono a sostenere la domanda interna. Per questo i livelli minimi devono essere adeguati per conseguire «condizioni di vita e di lavoro dignitose», stabilisce la direttiva, in un principio cardine ripreso oggi dai giudici dell’alta Corte di Roma.

Il ruolo della magistratura nel fissare il salario minimo

La Cassazione sottolinea infine nella sentenza che «nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione che hanno ovviamente un valore gerarchicamente sovraordinato nell’ordinamento». Tra gli strumenti per effettuare la verifica, i giudici citano il paniere Istat, l’importo della Naspi o della Cig, la soglia di reddito per l’accesso alla pensione di inabilità e l’importo del reddito di cittadinanza, avvertendo però che sono tutte forme di sostegno al reddito che garantiscono una «mera sopravvivenza» ma non sono «idonei a
sostenere il giudizio di sufficienza e proporzionalità della retribuzione» nel senso indicato dalla Costituzione e dalla Ue. Adesso la Corte di Appello dovrà adeguarsi in giudizio a questi principi fissati dalla Cassazione.

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