«Shalom, Aleikum Salam». Pace, in arabo ed ebraico. Sono le parole con cui Yocheved Lifshitz, una delle due donne israeliane liberate da Hamas ieri sera, si è congedata dai suoi rapitori al momento della consegna al personale della Croce Rossa al valico di confine con l’Egitto. L’incredibile scampolo di conversazione è registrato nel video della liberazione di Lifshitz e di Nurit Yitzhak diffuso dalla stessa Hamas. Le due donne, rispettivamente 85 e 79 anni, sono rimaste prigioniere degli islamisti per 17 giorni, e nelle immagini diffuse appaiono molto provate, ma in discrete condizioni fisiche. I loro mariti restano ostaggio di Hamas, o di una delle altre bande terroristiche attive nella Striscia che si sono “divise” il bottino di prigionieri fatto il giorno dell’assalto a Israele, il 7 ottobre. Lifshitz, che viveva nel kibbutz Be’eri devastato dagli islamisti, è stata per decenni un’attivista per la pace e per i diritti umani. Insieme al marito, ricorda il Guardian, trasportava personalmente palestinesi malati da Gaza verso ospedali di Israele dove potessero ricevere cure adeguate. Un impegno riecheggiato in quelle ultime parole riferite ai suoi carcerieri, armati di mitra, coperti di passamontagna nero e della caratteristica bandana verde di Hamas. Nonostante il trauma subito di cui la donna ha riferito oggi pubblicamente nel corso di una conferenza stampa.
Cronache dell’assalto (e della prigionia)
L’85enne israeliana ha parlato dall’ospedale Ichilov di Tel Aviv dopo aver riabbracciato parte della sua famiglia. Seduta su una sedia a rotelle, ha ripercorso lucida l’assalto di Hamas e la sua prigionia. Il 7 ottobre gli assalitori «si sono comportati in modo selvaggio: hanno ucciso e rapito senza distinzione giovani e anziani». Quanto a lei, risparmiata dalla furia omicida, è stata caricata e legata ad una motocicletta diretta a Gaza, poi colpita durante il tragitto: «Il guidatore della moto mi ha colpito con un bastone di legno. Non mi hanno rotto le costole, ma avevo dolore in tutta quella zona e faticavo a respirare. Mi hanno anche rubato l’orologio e dei gioielli», ha raccontato Yocheved Lifshitz. Poi, l’arrivo nella Striscia governata da Hamas: la donna sostiene di essere stata detenuta prima ad Abasan al-Kabira, non lontano dal confine, poi in un’altra località che non ha potuto identificare. «Alla fine siamo scesi sottoterra e abbiamo camminato per ore e per chilometri in un dedalo di tunnel umidi». Proprio come temuto dall’intelligence israeliana. «Siamo arrivati quindi in un’ampia stanza, e qui eravamo un gruppo di 25 persone, e ci hanno separati a seconda del kibbutz da cui provenivamo». La prigionia vera, almeno per Lifshitz, è stata stando al suo racconto quanto meno tollerabile: a lei e gli ostaggi che erano con lei è stato dato cibo e cure mediche, e i carcerieri erano particolarmente preoccupati dell’igiene: «Temevano che potesse scoppiare qualcosa. Pulivano i bagni ogni giorno».
Il fallimento delle autorità israeliane
Nella sua conferenza stampa, Lifshitz non ha lesinato anche pesanti critiche al governo israeliano: «Tre settimane fa abbiamo visto masse arrivare verso la barriera di confine. L’esercito non ha preso la cosa sul serio. Siamo stati abbandonati a difenderci da soli». E ora la donna continua a rivivere l’incubo di quel giorno, cui si aggiunge quello di non avere più notizie del marito, che si presume sia prigioniero altrove nella Striscia.
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