Ruben Cesana, l’ingegnere che combatte al confine con il Libano: «Sradicheremo Hamas, poi Netanyahu dovrà dimettersi» – L’intervista

38 anni, da oltre 20 in Israele, fa parte dei migliaia di riservisti chiamati dal governo. A Open racconta il mese più difficile di sempre: «Il 7 ottobre ha cambiato tutto. Ma dopo la guerra deve nascere uno Stato palestinese»

«Ci vorranno mesi, forse un anno, e ci sarà un prezzo da pagare, ma Israele ora deve andare fino in fondo e assicurarsi che una situazione come quella che c’era con Hamas prima del 7 ottobre non torni mai più. Il giorno dopo, questo governo dovrà andare a casa». Ruben Cesana ha 38 anni, è un riservista dell’esercito israeliano tra i migliaia richiamati in servizio dopo la strage jihadista. Nato e cresciuto a Roma, si è trasferito da ragazzo in Israele – come molti giovani ebrei di tutto il mondo. Oggi fa l’ingegnere elettronico, ha una moglie e 3 bambini, lasciati dal 7 ottobre per andare a coprire le posizioni nell’estremo nord del Paese, al confine con il Libano. In uno dei pochi giorni concessi per fare rientro in famiglia, a Gerusalemme, racconta a Open il mese più difficile che Israele abbia mai vissuto da quando vi si è trasferito, e il futuro prossimo.


Poche ore dopo la strage del 7 ottobre sei stato richiamato in servizio, così come altre circa 300mila persone. Dove sei stato inviato e con quali compiti?


«Nel periodo del servizio militare ho fatto parte dei paracadutisti, e così è tuttora. Di norma il ruolo di riservista prevede circa 2 o 3 settimane all’anno di addestramento. Ma in tempo di guerra, puoi essere richiamato in qualsiasi momento. Sono stato quindi assegnato insieme a tutti i compagni del mio battaglione a una base nell’estremo nord, al confine con il Libano. Ma la maggior parte del tempo la trascorriamo fuori dalla base, a pattugliare la zona e assicurarci che non ci siano minacce, come intrusioni di terroristi in Israele».

Com’è la situazione a quel confine?

«Ovviamente molto delicata, un’escalation è possibile in qualsiasi momento. Sino ad ora ci sono stati principalmente lanci di mortaio dal Libano e le risposte di Israele con l’aeronautica. Arrivano spesso anche missili anticarro, ma che Hezbollah lancia direttamente anche contro macchine qualsiasi: qualche giorno fa uno ha centrato un camion che portava beni alimentari e il conducente è rimasto ucciso. La maggior parte però vengono fermati prima che arrivino sul territorio israeliano. La nostra base è letteralmente a 3 metri dal Libano, dunque vediamo coi nostri occhi i terroristi di Hezbollah. Ma l’indicazione è molto chiara: rispondere solo ed in maniera chirurgica se attaccati, mai colpire per primi anche se ne avremmo l’opportunità».

Cosa vuole davvero Hezbollah?

«Siamo sicuri che anche dall’altra parte non vogliano assolutamente quest’escalation. La settimana scorsa il leader di Hezbollah ha detto chiaramente che questo non è un conflitto che appartiene al Libano, ma a Hamas. Non che si debba credere per forza ai suoi discorsi, ma è chiaro che la situazione politica in Libano non gli permette di fare quello che vuole: tanto il governo di Beirut quanto la maggior parte dei cittadini non vuole assolutamente soffrire per via di un’eventuale iniziativa di Hezbollah. Per questo pensiamo che si manterrà questa situazione di scambi di fuoco pressoché quotidiani, ma non troppo severi».

Che dire invece delle minacce che arrivano quotidianamente dall’Iran? Ancora ieri sera il ministro degli Esteri di Teheran ha detto che un allargamento del conflitto «è inevitabile». Solo propaganda o parole che fanno paura?

«No, non fanno assolutamente paura. Come dice il proverbio sia in ebraico che in italiano, can che abbaia non morde. È dall’inizio del conflitto che gli iraniani dicono “ora vi attacchiamo”: in realtà capiscono benissimo che con due portaerei e un sottomarino nucleare Usa schierate nella zona non possono permettersi di aprire un conflitto più ampio di quello che è ora. Sanno benissimo qual è il prezzo che dovrebbero pagare in caso di un attacco contro lo Stato d’Israele».

Cos’è cambiato dal 7 ottobre, nella vita quotidiana e nel suo sguardo su Israele?

«Come per tutti i cittadini israeliani è cambiata per prima cosa la percezione di ciò che abbiamo attorno. Vivevamo prima nell’illusione che nonostante tutte le minacce Hamas non avrebbe mai fatto una cosa come quella che hanno fatto il 7 ottobre. Ora è cambiata totalmente la modalità in cui Israele capisce di dover trattare l’altra parte. E parlo di Hamas, non certo dei cittadini palestinesi innocenti. Io stesso ho molti amici arabi israeliani così come palestinesi, e mi fa molto male anche quello che sta succedendo a loro. Ma ciò che è successo il 7 ottobre ha cambiato totalmente la maniera in cui pensano gli israeliani – sia il governo che la gente. Tutti capiscono che non è più possibile convivere con un’organizzazione terroristica dall’altra parte del confine. Dunque ci vorranno mesi, se non addirittura un anno, ma bisognerà pagare il prezzo di questo conflitto per far sì che la situazione pre-7 ottobre non possa in alcun modo ripresentarsi. Questa guerra non può finire con una tregua o un cessate il fuoco tale per cui poi Hamas torni magari tra 2 o 3 mesi a quel che era prima. Né il governo, né i cittadini israeliani lo consentiranno. Quanto al livello personale, tutti sono toccati direttamente perché ciascuno ha conoscenti se non parenti che sono stati uccisi o sequestrati quel giorno. E da padre di famiglia ovviamente è molto difficile dover stare lunghi periodi lontano da casa: ma questo è il prezzo minore da pagare».

Sin qui i princìpi su cui sono d’accordo governo e cittadini. Ma qual è il grado di fiducia reale che gli israeliani hanno oggi in Netanyahu?

«È chiaro a tutti che dopo che finirà la guerra questo governo dovrà andare a casa, perché sono loro i responsabili di quel che è successo, ed è stato talmente tragico che Netanyahu non potrà continuare a guidare il Paese. Su questo sono d’accordo quelli di sinistra ma anche molti di quelli di destra che sin qui lo sostenevano, me compreso. Ma in tempo di guerra non è il momento, dunque nessuno vuole che questo succeda ora. Adesso bisogna lasciar fare questo governo, ora di unità nazionale, e dargli tutto il supporto possibile. Quando finirà la guerra sarà il tempo di discutere di quello che è successo, dei cambi e delle critiche». 

Così come già s’intravede ciò che potrà succedere nel Paese una volta finita la guerra, già si discute del dopo anche per gli equilibri regionali. Crede che una volta debellata Hamas potrà tornare il tempo del dialogo tra israeliani e palestinesi?

«Assolutamente sì. Bisogna fare prima di tutto una distinzione tra arabi israeliani e palestinesi. Quanto ai primi, molti sono rimasti scioccati dalla barbarie di Hamas e condannano chiaramente ciò che è successo. Certo la situazione è molto tesa e c’è un certo “distacco” tra la popolazione ebraica e quella arabo-israeliana. Ma è una cosa che col tempo può passare, perché nelle scuole o negli ospedali professionisti ebrei ed arabi lavorano ogni giorno fianco a fianco. Quanto ai palestinesi, dovranno scegliere quale sarà la loro leadership. Una volta che Hamas verrà messa fuori gioco e che capiranno che la via del terrorismo non è quella che dà i migliori risultati, penso che anche Israele sarà pronta a far sì che ci sia uno Stato palestinese, perché non si può andare avanti senza che dall’altra parte non ci sia qualcuno cui dare la responsabilità. Oggi da un lato c’è un’organizzazione terroristica, dall’altro l’Olp che non si prende alcuna responsabilità dicendo “Noi non siamo uno Stato, ma un’organizzazione”. Dunque è molto importante che ci sia uno Stato palestinese, sia per loro perché possano avere finalmente un’indipendenza, sia per Israele perché ci sarà così un garante che assicuri che non rinasca il terrorismo». 

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