Spalletti, la Nazionale e i giovani che «mettono il musino in ogni banalità»: «Hanno poca voglia di sacrifici»

Il mister degli Azzurri si confessa: farò scelte tecniche ma anche morali

L’allenatore della Nazionale Luciano Spalletti parla oggi in un’intervista al Corriere della Sera del calcio italiano, dei calciatori e delle sue scelte per gli Azzurri. Dopo la qualificazione agli Europei Spalletti dice nel colloquio con Walter Veltroni dice che deve tutto a suo fratello, scomparso prematuramente, e che ha lasciato il cuore a Napoli. Poi parla dell’abbraccio con Francesco Totti («È stata una liberazione») e dei ragazzi che «devono imparare da Maradona, che si allenava anche nel fango». Ma anche della vicenda delle scommesse e della necessità di un’educazione, mentre gli allenatori delle giovanili non devono «copiare i miei schemi» ma lasciare i ragazzi liberi di esprimersi. E cercare il talento, anche «nascosto nell’incompletezza fisica».


Il mister e Napoli

Spalletti rivela che suo fratello Marcello per lui «è stato tutto. E di più. Lui giocava al calcio, aveva visto che ero bravino ed era orgoglioso di me. Mi proteggeva e, insieme, mi spingeva sempre a migliorare. Se ne è andato anni fa, per un tumore. Ho sofferto molto». Poi parla della sua ultima panchina in una squadra di club, conclusasi con lo scudetto: «A Napoli ho lasciato il cuore. Non è immaginabile l’affetto, anzi l’amore che mi sono scambiato con quella città. Mi ha regalato, per la prima volta nella mia storia di allenatore, l’emozione unica di sentirmi parte di una comunità. A Napoli sono stato felice perché ho toccato con mano la felicità dei napoletani e dei miei calciatori. Ho ricevuto sensazioni indescrivibili. Una delle cose più belle che potessero capitarmi nella vita. È stata la mia università di vita, penso sia difficile avere più di quello che ho avuto io e nessuna impresa può meritare quello che i napoletani hanno dato a me». Ma non cita mai il presidente Aurelio De Laurentiis.


Gli Europei e i giovani

Agli Europei, fa sapere, non si pone limiti di risultato: «Ci sono tanti giocatori giovani che possono crescere, come Scalvini, Udogie, Scamacca e davanti abbiamo, con Retegui, Raspadori, Kean, Immobile molto più di quanto si pensi. Raspadori, ad esempio, è un ragazzo fantastico: non rinuncia a impegnarsi né in allenamento né nel preparare uno dei suoi esami universitari. Fammi dire anche che Chiesa è uno di quei giocatori che appartengono alla rara bellezza del calcio degli illusionisti. Calciatori come lui fanno la fortuna degli allenatori, ti regalano soluzioni che non esistono in nessuna mia lavagna». Sui giovani invece critica gli allenatori: «Li facciano giocare con la palla, non c’è bisogno che gli allenatori dei settori giovanili facciano il copia e incolla degli schemi miei o di altri. Bisogna fare attenzione a non appiattire i livelli, a non mortificare talenti e creatività».

Le scommesse

Consiglia anche alle società di mandare i più promettenti nei campionati stranieri invece di lasciarli in panchina o affidarli alle serie inferiori. Poi parla anche delle scommesse: «Le pubblicità che vengono proposte tre o quattro volte a partita. Le società di scommesse come sponsor. Ci si indigna, ma si pubblicizza una cosa che ha ragione di esistere solo economicamente e in nessun modo eticamente… Purtroppo le scommesse non sono solo una piaga nel mondo del calcio, ma spesso lo sono sul piano sociale, esistono famiglie rovinate da una “malattia”, una dipendenza, che purtroppo all’economia fa comodo tenere in piedi. È un po’ come il discorso delle sigarette, e lo Stato che le rende legali». Ai giocatori dice di pensare a chi è sugli spalti: «Perché tutti vogliono bene a Sinner? Perché nel suo gioco si vede il segno della fatica».

I giovani calciatori

Spalletti aggiunge che in Italia manca la cultura della sconfitta, anche nei campionati giovanili. «I giovani calciatori sembrano avere meno fame, hanno troppe sicurezze. La loro formazione avviene su campi perfetti, con l’erba sintetica e le docce calde. Maradona, i filmati ce lo raccontano, si rotolava con il pallone in campi che sembravano acquitrini. C’era sofferenza, fatica, una innata cultura della sfida del miglioramento. I panni, dopo l’allenamento, vanno lavati, devono essere ben sporchi. I ragazzi oggi mettono il loro musino in ogni banalità. Si aspettano che tutto sia dovuto, sembrano avere poca voglia di sacrifici. I ragazzi da un po’ di tempo sono “Tutto e subito, altrimenti non è colpa mia”. Non ho timore a dire che in ogni campo e in ogni momento della formazione – un genitore, un insegnante, un allenatore – c’è bisogno di qualcuno che li aiuti a distinguere tra mondo reale e mondo virtuale, che gli faccia respirare la carnalità, la corporeità delle paure, degli incontri, delle possibilità. È questo il modo di proteggerli e di spronarli. Hanno bisogno di dolce autorevolezza».

I fischi dell’Olimpico

Infine, la guerra (e poi la pace) con l’Olimpico e con Totti: «Quei fischi mi dispiacquero molto. Io ho sempre cercato di fare il bene della Roma, con la quale abbiamo fatto un bel gioco e ottenuto bei risultati. E ho cercato anche di fare il bene di Totti, che è stato uno dei più grandi giocatori del nostro calcio. Per me, riabbracciarlo è stato come una liberazione».

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