Dalla letteratura al teatro, la tragedia condivisa di due padri «nemici» riaccende il dialogo tra israeliani e palestinesi

Ispirato al libro cult dello scrittore Column McCann «Apeirogon», il recital «Salām/Shalom» subito sold out a Milano: «Il vero eroe è chi sa trasformare il nemico in amico»

Quante facce ha il dolore? E quante il conflitto in Medio Oriente? Devono esserselo chiesti in molti, nelle ultime settimane, di fronte al propagarsi della violenza come una scarica elettrica impazzita in tutta la regione: Israele e Gaza, certo, ma anche la Cisgiordania e il Libano. E poi Siria e Iraq. Iran e Kurdistan. Pakistan. E Yemen, mari, stretti e canali circostanti. Dov’è il senso di tutto ciò che sta accadendo? Dov’è il perché, e dov’è la via d’uscita? Pure la geopolitica annaspa di fronte allo spillover dell’orrore. E se risposte più adeguate arrivassero dall’arte? Infiniti volti ha la guerra, infiniti il dolore, come infinite sono le facce dell’Apeirogon, il poligono “impensabile” che dà il titolo a un libro-fenomeno dello scrittore irlandese-americano Colum McCann. Da quell’opera rivelazione (Feltrinelli, 2022 in edizione italiana) sulla guerra e sulla pace due attori italiani, Alessandro Lussiana e Massimo Somaglino, hanno tratto un recital che pare fatto apposta per sfidare la spirale di violenza innestatasi dal 7 ottobre: Salām/Shalom. Due padri. Rami, israeliano, e Bassam, palestinese, hanno patito lo stesso, tragico destino: hanno perso una figlia giovanissima per mano del «nemico». Storia vera, quella su cui è costruito Apeirogon e a cascata il recital. Il primo s’è visto portare via la figlioletta 13enne in un attentato kamikaze a Gerusalemme nel 1997; il secondo ha perso la ragazzina 18enne dieci anni dopo esatti – colpita da un proiettile di plastica sparato da una guardia di frontiera israeliana, morta in ospedale dopo che l’ambulanza che l’ha soccorsa è rimasta bloccata per ore a un checkpoint. Il loro dolore assoluto si fa subito odio, sete di vendetta. Poi, col tempo, conosciutisi i due, diventa altro. Compassione, nel senso originale del termine: il tuo dolore è lo stesso che provo io. Così non si può andare avanti, è la naturale conseguenza. Serve un’altra strada. Percorso emotivo che solo chi vive quelle ferite può compiere, ma che tutti gli altri possono accompagnare, capire. Incoraggiare. Proprio la risposta che sembra arrivare in queste ore dal pubblico.


La serata sold out e il desiderio di dialogo

Dopo il debutto la scorsa primavera a Udine, nell’ambito del Festival Vicino/Lontano, e diverse altre messe in scena in teatro e per le scuole, lo spettacolo prodotto dal festival stesso e dal Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia arriva questa sera a Milano, su spinta della Fondazione Diritti Umani. Il successo dell’iniziativa ha stupito gli stessi organizzatori: posti esauriti (il recital andrà in scena all’Auditorium di Radio Popolare) ancor prima di lanciare la macchina della comunicazione vera e propria, dopo appena un paio di post sui social. «Un piccolo ma significativo segnale» del clima che si respira attorno alla guerra a oltre tre mesi dalle stragi del 7 ottobre, riflette Danilo De Biasio, direttore della Fondazione Diritti Umani. «Dà l’idea, mi pare, che c’è una stanchezza sempre più diffusa a vedere la guerra come unica soluzione per qualsiasi forma di conflitto». Vuoi per compassione, appunto, vuoi per egoismo, il bisogno di un’altra strada si fa largo nell’opinione pubblica. Come fotografato d’altronde dal recente sondaggio condotto da Swg per La 7: metà degli italiani, ma quasi il 70% di chi si esprime sulla questione, vuole che il conflitto sia risolto al più presto con la costituzione di uno Stato palestinese guidato da forze moderate in grado di vivere in pace accanto a quello israeliano. Con buona pace degli ultrà che predicano odio e distruzione. Per De Biasio l’interesse del pubblico per Salām/Shalom potrebbe essere però la spia anche di un’altra necessità, psicologica e quasi fisica: «La forma del teatro potrebbe essere più interessante rispetto all’abuso di immagini strazianti della guerra sui media o sui social. “Voglio occuparmene, ma non guardando l’ennesima immagine del bambino piangente o dell’ostaggio rapito”, sembra essere il messaggio». Due corpi, quelli degli attori sul palco, e le loro parole che sgorgano e s’intrecciano sono forse strumento migliore per esserci, condividere, fare la propria parte.


La potenza del percorso di due padri

Ad essere impressionati dalla potenza del racconto di quei due padri, dalla forza del loro percorso interiore, sono d’altra parte gli attori stessi che hanno scelto di dar loro voce. «Lo sforzo di questi due padri per riuscire a trasformare il primo sentimento di vendetta, violenza, restituzione del dolore causato in pace è assoluto», dice a Open Massimo Somaglino, uno dei due ideatori e interpreti della performance. Assoluto dunque replicabile, è la lezione «sconvolgente». Anzi già replicato, come indica il lavoro quotidiano di Parents Circle, l’associazione che mette in collegamento vittime di drammi della guerra israeliane e palestinesi dalla cui esperienza nasce la storia innalzata a universale da McCann. «A un certo punto del dialogo il palestinese dice: “Il vero eroe è colui che riesce a trasformare il nemico in amico”», ricorda Somaglino. Che spera di riuscire con il recital a diffondere nel pubblico la commozione e anche la «responsabilità» dell’incredibile percorso di quei due padri. Coltivando fiducia. Perché, dice, se in tv e sui giornali «c’è sempre e solo narrazione di guerra, il desiderio delle persone è un desiderio di pace. Ma il dolore va prima capito, poi elaborato: allora si può trasformare in percorso di pace. Un percorso a quel punto impossibile da invertire».

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