La tragedia della dottoressa di Gaza è vera, ma la disinformazione alimenta il negazionismo


Il 24 maggio, nove fratelli di nome Yahya, Rakan, Raslan, Gebran, Eve, Rival, Sayden, Luqman e Sidra, sono stati uccisi nella loro casa a Khan Yunis durante un bombardamento dell’esercito israeliano. I genitori, Hamdi e Alaa al-Najjar, entrambi medici all’ospedale Nasser, sono al momento sopravvissuti. La notizia è stata confermata da fonti ospedaliere, testimoniata da medici britannici presenti sul posto e verificata da Sky News. Nelle ore successive alla strage, la verità è stata inquinata dalla circolazione di diverse immagini errate, due analizzate da Open e una raffigurante sette bambini che appartenevano a un’altra famiglia, gli Abu Daka, vittime di un’altra strage causata dagli israeliani.

L’uso di immagini sbagliate ha scatenato un meccanismo ormai noto nei conflitti, ossia quell’opera di propaganda che volge a inculcare il dubbio fino alla negazione dei fatti. Nell’area pro Israele più estrema, l’uso sbagliato di queste immagini è stato sfruttato e alimentato per mettere in discussione l’intera vicenda, alimentando sospetti e distorsioni della realtà. C’è chi, riscontrando la falsità delle immagini, ha deliberatamente insinuato o sostenuto che fosse tutta un’invenzione di propaganda di Hamas e dei loro complici.
La disinformazione come arma per negare la sofferenza dei civili
Una parte della responsabilità ricade anche su chi, in buona fede, diffonde immagini non verificate. Chi condivide contenuti decontestualizzati per denunciare un orrore reale dovrebbe fermarsi a riflettere. Perché ogni errore, ogni superficialità, è un’arma nelle mani di chi vuole negare la sofferenza dei civili palestinesi. Non basta avere ragione se poi la verità viene raccontata con approssimazione. Come dimostra il caso della dottoressa e dei suoi nove figli uccisi da Israele, è proprio la disinformazione, anche involontaria, che mina la credibilità della denuncia rafforzando i negazionisti.

Peggio ancora è la pretesa che le famiglie di altre stragi, come quella degli Abu Daka, si sentano addirittura onorate di “rappresentare” altri dolori. È una forma di spersonalizzazione crudele in quanto quei bambini avevano dei nomi e una storia. Nessun può sentirsi rispettato vedendo le foto dei propri cari sfruttate in un altro contesto senza nome e senza storia. Ogni vittima ha diritto a essere ricordata per la propria tragedia, non per una narrativa costruita a tavolino. Le stragi non vanno “sostituite” e non si devono sovrapporre, ma piuttosto sommate per poter dimostrare senza possibilità di appello i danni di questo conflitto.
Un problema da entrambe le “fazioni”
Se è vero che alcuni sostenitori di Israele negano le responsabilità dell’esercito nelle stragi di civili, alimentando la teoria del complotto di “Pallywood“, è altrettanto vero che parte del mondo pro Palestina fatica a riconoscere le stragi del 7 ottobre da parte di Hamas, come nel caso in cui vennero attribuite falsamente al fuoco israeliano le vittime civili di quella giornata. In entrambi i casi, è un meccanismo di autodifesa psicologica attraverso una grossa bugia: “La mia parte non può fare certe cose”. Sostenerla, anche solo per proteggersi, significa respingere la verità e fornire un assist a chi non vede l’ora di negare i fatti.

La tragedia deve essere raccontata correttamente per non alimentare i negazionisti
Come già precisato nel fact-check di Open, la tragedia della famiglia al-Najjar è reale e i bambini sono morti. Ma l’uso scorretto delle immagini ha trasformato il dolore in campo di battaglia per la disinformazione e il negazionismo. Il giornalismo ha il dovere, deontologico prima ancora che etico, di cercare la verità, non di confermare pregiudizi o assecondare un problema. Nel sanguinario conflitto di Gaza, dove l’accesso è vietato ai media stranieri, la verifica è difficilissima. Ma questo non giustifica l’approssimazione o la cecità selettiva, sia da parte dei giornalisti che da parte di chiunque, soprattutto nei social, voglia raccontare i fatti del conflitto.