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Dazi al via, dal 15% europeo al 30% sul Messico: tutte le tariffe americane Paese per Paese e i “trucchetti” dietro alle percentuali

31 Luglio 2025 - 09:40 Ugo Milano
dazi usa europa trucchetti percentuali
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Da venerdì 1 agosto entreranno in vigore in tutto il mondo le nuove tariffe doganali americane. Ma i numeri non raccontano sempre tutta la storia: non sempre un 10% è meglio di un 15%

Come in ogni partita – o battaglia o guerra se così la si vuole chiamare – c’è chi vince e c’è chi perde. Quella dei dazi, che da domani venerdì 1 agosto cominceranno a gravare sui traffici globali, il discorso rimane valido. Semplicemente, ora come ora, è impossibile capire chi l’abbia spuntata. A ogni azione, che si tratti di tariffe unilateralmente applicate dagli Stati Uniti o accordi di scambio come quello con l’Unione europea, corrisponde una reazione che potenzialmente ridisegnerà il prossimo futuro del commercio. E non è detto che a dazi inferiori si abbini un vantaggio economico immediato.

L’accordo del Regno Unito e i possibili vantaggi europei

Lo scopo di Donald Trump è stato chiaro fin da subito: alzare i muri per spingere l’intero mondo, o meglio le sue imprese, a trasferirsi nel Paese a stelle e strisce. O, in alterativa, pagare. Ma pagare quanto? La Casa Bianca ha stilato un piano personalizzato per ogni Paese, lasciandosi spalancata la possibilità di trattare singolarmente e abbassare la soglia dei dazi per dimostrare la sua magnanimità. In questo senso, il Regno Unito fa da spartiacque: il primo Stato a trovare un accordo con gli Usa, accettando una tariffa del 10% che sarà valida anche sulle prime 100mila auto importate, pari al numero di export negli ultimi anni. Sulla carta un vantaggio non da poco rispetto al 15% che Ursula von der Leyen ha strappato (o ceduto) a Trump. Ma la questione è più complessa. Al 10% inglese bisogna aggiungere le tariffe già in vigore, mentre il 15% europeo terrebbe già conto di tutto. Non solo. Alla “centomillesima e uno” vettura importata dal Regno Unito, per Londra la tariffa schizzerà al 25%. Unico vantaggio anglosassone sarebbe il 25% sull’acciaio, la metà rispetto alla tariffa europea. L’export però è una minuscola fetta, solo 500 milioni di euro annui, e non andrà a impattare in alcun modo il mercato dell’Ue.

La linea dura con Messico e Canada e il “trucchetto” delle auto

C’è poi il tema dei vicini, Canada e Messico. Al sud, oltre al muro, Trump ha imposto un 30% negoziabile. Al nord un 35%, senza lasciar trasparire una grande propensione alla trattativa. Peccato che proprio Messico e Canada siano due snodi nevralgici per la produzione americana di auto, essendo che le varie Stellantis, Ford o GM lì hanno centri di produzione importanti o sfruttano quei Paesi come corridoi di transito per le loro parti. Anche per questo, ai produttori è stato dato libero accesso al vecchio accordo Nafta (North America free trade). Tradotto, come spiega al Corriere il ricercatore Ispi Matteo Villa: «Sono di fatto esenti dai dazi. Ad aprile abbiamo calcolato per il Messico una tariffa del 10%, per il Canada del 4%».

Gli accordi del Giappone e il crocevia del Vietnam conteso con la Cina

Altro campo di battaglia è sicuramente l’Asia. Il Giappone ha negoziato, poche ore prima dell’Ue, dazi al 15%, salvando in extremis ma a prezzo salato il suo export da 152 miliardi di dollari annui negli Stati Uniti, quinto al mondo. Una decisione che ha fatto insorgere l’automotive americano, che si trova con le spalle contro due muri: il 15% sulle auto giapponesi e il 50% su acciaio e ricambi provenienti dal mercato europeo e mondiale. Una scelta simile è stata presa per Taiwan, con dazi al 10% per non azzoppare il flusso vitale di chip, pannelli Lcd e memorie informatiche. Ma persino per il Vietnam, che dal 46% è riuscito a negoziare tariffe del 20% facendosi forte del suo ruolo strategico per la produzione di giganti americani come Apple, Nike e Gap. Trump ha però posto una condizione: un dazio del 40% su tutte le merci che la Cina fa passare per il Vietnam per aggirare le tariffe il cosiddetto trans-shipping. Più facile a dirsi che a farsi.

I duri colpi a India, Brasile e Corea e i veri vincitori dei dazi

Vittima delle aspirazioni protezionistiche americane è sicuramente l’India, colpita da sovrapprezzi alla dogana del 25%. Un muro che Washington ha giustificato evidenziando le elevate tariffe che la stessa New Dehli ha applicato ai prodotti americani, in particolare quelli agricoli, che partono da una base del 39% e sfiorano il 50%. Per Filippine e Indonesia gli accordi hanno sancito invece una soglia del 19% mentre Brasile e Corea del Sud ancora stanno tentando ai raggiungere un accordo per evitare dazi rispettivamente del 50% e del 25%. A dormire sonni tranquilli sono invece tutti quei Paesi che si sono accontentati del «dazio reciproco base» al 10%, come Turchia ed Egitto, e che potrebbero sfruttare questo vantaggio per diventare veri poli produttivi per Paesi in cui le tariffe sono ben più alte.

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