Addio a Gianni Berengo Gardin, maestro della fotografia in bianco e nero. Aveva 94 anni


Un milione e mezzo di scatti, forse di più. Un archivio di immagini come un lungo racconto per frammenti. Gianni Berengo Gardin è morto nella notte a Genova, a 94 anni. Se n’è andato uno dei più grandi fotografi italiani del secolo scorso, uno di quelli che hanno saputo attraversare il tempo restando sempre fedeli alla propria visione: umana, sobria, partecipe. Sempre in bianco e nero, senza finzioni, senza effetti, senza ritocchi. «Vera fotografia», come amava timbrare dietro le sue stampe, con orgoglio e un pizzico di provocazione. Berengo Gardin ha raccontato un Paese intero. Dai manicomi ai matrimoni, dai treni ai barconi, dalle calli veneziane alle periferie del boom economico. Ha fatto la storia della fotografia, ma si è sempre tenuto lontano dalla parola “artista”. Era, diceva lui, un documentarista, un testimone. Un uomo innamorato della vita che si vede.
Le origini veneziane e la carriera come fotografo
Di lui si dice che fosse veneziano. E in parte lo era: Venezia è stata la città dove ha imparato a vedere, dove ha saltato il canale che separa l’amatoriale dal professionale. Ma era anche ligure, anagraficamente: suo padre gestiva un albergo a Santa Margherita Ligure, sua madre era svizzera, gli prestò la prima macchina fotografica, una Voigtländer a soffietto. E poi c’era lo zio d’America, amico di Cornell Capa, che gli spedì i libri giusti: Dorothea Lange, Eugene Smith, la Fsa. La fotografia sociale americana lo folgorò. Così lasciò gli aeroplani – la sua prima passione – e cominciò a fotografare tutto il resto. Per vivere, fece il cameriere, il bagnino (anche se non sapeva nuotare), il commesso. Poi finalmente fotografo. Alla Gondola di Venezia, il circolo fotografico storico, fu accolto con una stroncatura: le sue stampe gli vennero strappate in faccia. «Puoi fare di meglio». E infatti lo fece.
Le sue fotografie in bianco e nero
Il suo bianco e nero non era una posa, ma una scelta linguistica. Il colore l’ha usato, certo. Ma la pellicola era il suo credo. E la realtà, il suo altare. Il digitale gli «arricciava la barba», diceva scherzando. Non costruiva immagini, le cercava. Non proponeva mondi, li designava. Era un fotografo della realtà, non dell’interpretazione. «Io fotografo per testimoniare, non per stupire», diceva. Ma stupiva lo stesso. Ha scattato foto che sono diventate più famose di lui: la 500 solitaria davanti all’oceano, i ragazzi che ballano con un grammofono tra le dune del Lido, il bacio sotto i portici di San Marco. «Era ironico, non romantico», diceva di quell’immagine replicata ovunque dai fotoamatori. Eppure restava affezionato a uno scatto manierista e spaesante di riflessi su un vaporetto, tra specchi e finestrini: tanto che Cartier-Bresson lo incluse tra le 80 foto da salvare del Novecento.