«Era lucido quando sterminò la sua famiglia», perché il 17enne di Paderno Dugnano è stato condannato a 20 anni: l’immortalità, il nazismo e l’omofobia


Aveva un’idea «stravagante» e «bizzarra», quella di raggiungere «l’immortalità attraverso l’eliminazione della propria famiglia». Ma questo pensiero, per quanto disturbato, era ancora sotto il suo controllo. È quanto emerge dalle 51 pagine di motivazioni depositate dal Tribunale per i minorenni di Milano, firmate dalla giudice Paola Ghezzi, che lo scorso 27 giugno ha condannato R.C. a 20 anni di reclusione – il massimo previsto con rito abbreviato – per la strage compiuta nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre 2024 a Paderno Dugnano. Il ragazzo, che all’epoca dei fatti aveva 17 anni e ora è prossimo ai 19, uccise con 108 coltellate il padre, la madre e il fratellino di 12 anni nella villetta di famiglia.
Perché il tribunale ha escluso il vizio parziale di mente
La sentenza prende le distanze dalla perizia dello psichiatra Franco Martelli, che aveva accertato un vizio parziale di mente. Secondo il perito, Riccardo viveva sospeso tra realtà e «fantasia», con il desiderio di rifugiarsi in un mondo immaginario, cioè quello dell’«immortalità», e nella convinzione di doversi liberare di tutti gli affetti per raggiungerlo. Martelli aveva evidenziato «aspetti personologici disfunzionali quali un elevato grado di alessitimia», la «divisione psichica della personalità» e la «persistenza della fantasia-progetto».
Tuttavia, la giudice Ghezzi respinge questa conclusione. Analizzando il comportamento concreto del ragazzo prima, durante e dopo i delitti, non riscontra «alcuna evidenza di una condizione psichica di instabilità e di ingovernabilità». Anzi: Riccardo avrebbe «distinto la realtà dall’immaginazione» e «lucidamente programmato, attuato, variato secondo il bisogno le proprie azioni».
Un «manipolatore attratto dal nazismo»
La giudice descrive il ragazzo come un «manipolatore», che ha progettato gli omicidi «nei minimi dettagli», che ha manifestato «scaltrezza» nel «tendere la trappola per uccidere i genitori nella sua cameretta e non nella camera matrimoniale», dopo aver già colpito il fratellino. E che ha agito in modo «sconcertante» colpendo tutti e tre in «modo cruento», infliggendo loro «numerosissime coltellate (oltre 100, ndr) infierendo sui loro corpi esanimi ed anche colpendo alle spalle il padre, dopo aver dato l’impressione di volersi fermare successivamente all’aggressione al fratello ed alla madre».
Pur applicando la «diminuente della minore età e le circostanze attenuanti generiche con giudizio di prevalenza su tutte le circostanze aggravanti», tra cui la premeditazione, la giudice ha applicato per il giovane la pena massima in abbreviato di 20 anni, non riconoscendo il vizio parziale di mente. Nella sentenza si mette in luce anche «la condotta tenuta immediatamente dopo il delitto» orientata «ad eludere le investigazioni per garantirsi l’impunità: dapprima il piano prevedeva di far ricadere la colpa sulla madre, poi sul padre ed infine su di sé, ma soltanto dopo aver avuto la certezza, attraverso il nonno, che gli investigatori non avessero creduto alla versione fornita in prima battuta ai soccorritori». La giudice ricorda anche, come era già emerso, che dall’analisi dei dispositivi del ragazzo erano emerse immagini, come la foto del Mein Kampf, o «esternazioni di pensiero comprovanti la sua inclinazione verso l’ideologia fascista», nazista e «omofoba».
La rabbia e l’accanimento come «benzina» del massacro
Nelle motivazioni si legge che «certamente nell’evenienza criminale debbono aver avuto peso potenti stati emotivi, una grossa dose di rabbia ed odio narcisistici, accumulati ad ogni frustrazione». Emozioni che hanno alimentato un’aggressività estrema, evidente dalle «modalità particolarmente spietate dell’esecuzione».
La giudice sottolinea che «per quanto si possa essere inesperti nell’uccidere, un tale accanimento e varietà delle lesioni (soprattutto nei confronti del fratello e della madre) non può non avere come ‘benzina’ tali sentimenti». Il 17enne, secondo la sentenza, «ha mantenuto lo stesso livello di organizzazione mentale durante le diverse fasi del delitto, non apparendo in alcun momento dissociato». Le sue azioni sarebbero state frutto di «un piano ben organizzato», espressione dell’«intelligenza di condotta dimostrata ed applicata».
La difesa: «Non considerata la patologia di Riccardo»
L’avvocato Amedeo Rizza, difensore del ragazzo, ha annunciato ricorso in appello. «Ovviamente non condivido questa motivazione. Il giudice non ha preso atto della concreta incidenza e del nesso di causalità che c’è tra la patologia di Riccardo ed il reato commesso». Il legale contesta il fatto che, pur riconoscendo un disturbo psichiatrico e «la necessità di cure», il tribunale abbia ritenuto che tale disturbo «non ha inciso nella capacità del volere». Inoltre, critica la pena massima inflitta, nonostante il riconoscimento delle attenuanti generiche con criterio di prevalenza. La vicenda ora passerà al processo d’appello, dove la difesa tenterà di far valere il vizio parziale di mente escluso in primo grado.