Ue, il labirinto dell’unanimità: si può farne a meno solo… all’unanimità. Ma Von der Leyen studia la mossa a sorpresa per «sedurre» Meloni e Orbán (e svoltare sull’Ucraina)

«Non intendo formulare una proposta di revisione dei Trattati nel senso di allargare il voto a maggioranza: la mia priorità è difendere gli interessi nazionali italiani». Con poche parole nette la scorsa settimana Giorgia Meloni ha chiuso la porta a un possibile abbandono – per lo meno su alcune materie – della regola dell’unanimità per le decisioni in ambito Ue. L’Italia, in altre parole, non intende rinunciare al diritto di veto che i Trattati Ue riconoscono agli Stati membri, suoi «soci fondatori». La questione è delicata, perché gli Stati sono per natura gelosissimi della loro sovranità. E solo dopo secoli non a caso si è arrivati dopo le grandi guerre del Novecento alle prime svolte con cessioni volontarie di sovranità in nome di un bene superiore: la tutela della pace, la cooperazione economica, e così via. L’Italia stessa ha radicato quella possibilità nella sua Costituzione repubblicana («consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo», declama l’articolo 11). L’Unione europea d’altra parte è ben più di una «normale» organizzazione internazionale, almeno nelle intenzioni aspira ad avere una sua dimensione politica. E per operare con efficacia in un mondo di «lupi» – da Trump a Putin a Xi Jinping – non può permettersi di restare per mesi in balia dei veti incrociati su decisioni cruciali. Pena la sua eclissi o «sottomissione» di fatto, come ammonisce da mesi Mario Draghi. Ma perché si discute tanto adesso di questa questione? E che opzioni ha davanti l’Ue?
C’era una volta l’unanimità (modificabile solo all’unanimità)
Il dibattito torna a interrogare e dividere i leader politici europei a intervalli regolari, ormai da anni. E in realtà piano piano nel tempo di passi avanti ne sono stati fatti eccome. All’inizio del processo di costruzione europea, negli anni ’50, l’unanimità era la regola – come in ogni organizzazione internazionale «tradizionale». D’altra parte i Paesi fondatori erano ben pochi, sei – Italia, Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi – e la volontà di procedere con la cooperazione economica condivisa. Le cose sono cambiate a mano a mano che la Comunità europea si è allargata, e a mano a mano che l’Ue (dagli anni ’90 ha preso questo nome) ha acquisito competenze in sempre più materie. Su quelle meno «sensibili» politicamente si scelse allora di adottare le decisioni in sede di Consiglio – l’organo che riunisce gli Stati membri – a maggioranza qualificata. Nel tempo, revisione di un Trattato dopo l’altro, quella modalità si è estesa, sino all’ultimo passo compiuto col Trattato di Lisbona, in vigore dal 2009: ora la regola predominante è la maggioranza qualificata, l’unanimità l’eccezione. I Paesi mantengono il loro diritto di veto «assoluto» (basta un singolo no per bloccare tutto), in altre parole, su poche, ma cruciali materie: politica estera e di sicurezza; bilancio Ue; adesione di nuovi Stati membri; cittadinanza Ue; armonizzazione fiscale; armonizzazione legislativa in materia di sicurezza sociale e protezione sociale; alcune disposizioni in materia di giustizia e affari interni.
La politica estera in balia dei veti e lo spettro di Putin
ll nodo del contendere, nei fatti, riguarda soprattutto le decisioni che l’Ue è chiamata a prendere in materia di politica estera e di difesa. Qui spesso la rapidità decisionale è decisiva per rispondere adeguatamente alle sfide circostanti, ma qui altrettanto spesso gli Stati Ue hanno visioni e interessi diversi, e custodiscono gelosamente il loro diritto di veto. Chi lo sventola volentieri e senza alcuna remora negli ultimi anni è l’Ungheria di Viktor Orban, per esempio – è il caso più noto – per bloccare o almeno annacquare i pacchetti di aiuti all’Ucraina e quelli di sanzioni alla Russia di Vladimir Putin. In realtà più o meno dietro le quinte sono molti i Paesi europei a non voler cedere così facilmente quel pezzo cruciale di sovranità nazionale. In questo senso la dichiarazione di Giorgia Meloni di pochi giorni fa stupisce fino a un certo punto. Il problema è che presto l’Unione europea – che dopo l’allargamento ad Est del 2004/2007 e poi della Croazia nel 2013 conta oggi 27 Stati membri – potrebbe espandersi ulteriormente, inglobando nei prossimi anni l’Ucraina, la Moldavia e diversi Stati dell’area balcanica che hanno richiesto da anni l’adesione. E tutti o quasi i leader e osservatori concordano nel ritenere che una Ue a 32 o 35 membri diventerebbe di fatto ingovernabile col diritto di veto per tutti, anche solo su certe materie. Che fare, dunque?
La scorciatoia delle «clausole passerella»
Rimuovere il vincolo dell’unanimità, nei fatti, è molto complicato. Per farlo, paradossalmente, serve proprio l’unanimità. Lo stabiliscono i Trattati europei stessi, ed è da qui che nascono i grattacapi. E la necessità di trovare soluzioni alternative «creative». Una la offre la stessa normativa generale Ue. Per passare alla maggioranza qualificata in questa o quell’altra materia, prevede se non altro il Trattato di Lisbona, non è obbligatorio rimettere mano a tutti i Trattati. Questo richiederebbe infatti un iter lungo e complicato, con la convocazione di una conferenza intergovernativa ad hoc e estenuanti procedure di ratifica in tutti gli Stati membri. I capi di Stato e di governo possono invece usare la cosiddetta «clausola passerella» e decidere di far passare una data materia alla maggioranza qualificata in modo semplificato: serve però l’approvazione preventiva del Parlamento europeo e, manco a dirlo, l’unanimità. Secondo quanto filtra da Bruxelles, la Commissione Ue starebbe sondando la disponibilità dei leader a procedere su questa strada per lo meno sul tema dell’allargamento dell’Ue nuovi membri, di modo da far procedere il dossier di adesione per lo meno di Ucraina e Moldavia e mandare così un segnale forte a Vladimir Putin.
Soluzione «creativa» per accogliere Ucraina e Moldavia?
Non è detto che il tentativo vada in porto. Per questo l’altra soluzione che Ursula von der Leyen starebbe studiando coi suoi tecnici – secondo quanto riporta Il Mattinale Europeo di David Carretta – sarebbe quella di introdurre il concetto di «messa in prova» di nuovi Paesi membri Ue. In sostanza i nuovi arrivati sarebbero ammessi «con riserva», con la possibilità cioé di cacciarli in caso di arretramento sui valori fondamentali e la democrazia. E a rinunciare al «sacro Graal» statale del diritto di veto sarebbero proprio loro. Basterà a convincere Orban e i suoi più o meno espliciti alleati? E che ne penserà l’Ucraina stessa di Volodymyr Zelensky? Se ne capirà di più il prossimo 4 novembre, quando von der Leyen presenterà il rapporto sui progressi realizzati dai Paesi candidati e la strategia per l’allargamento dell’Unione.
