Elodie e la folle ansia dei cantanti per l’assenza. Per questo la musica italiana è sempre più superficiale?

Elodie, alcuni giorni fa, in lacrime, chiudendo il suo ultimo live del tour, ha detto: «Grazie veramente di cuore: è stato un tour bellissimo, mi avete dato tanto amore e vi ringrazio, spero che vi siate divertiti, io mi sono impegnata, ce la metto sempre tutta nonostante qualche errorino. Adesso mi fermo per un po’, ma ho già tutto in testa, il nuovo show, il nuovo palco, perché mi fate venire voglia di lavorare, e tanto. Non vedo l’ora di tornare da voi. Posso già dirvi che torno nel 2027». Neanche il tempo di far scendere qualche lacrimuccia anche ai fan particolarmente affezionati, che, una manciata di ore dopo, già è stata data comunicazione delle sette date di un tour nei palazzetti previsto tra aprile e maggio, appunto, 2027. Nostalgia canaglia, direbbe qualcuno, ma in fondo niente sorprende davvero, perché questa è la velocità del nuovo pop.
Un anno di pausa una volta non avrebbe fatto notizia, sarebbe stato considerato da tutte le parti in causa un normale intervallo tra un passaggio della carriera e un altro, oggi invece sembra un’infinità di tempo, vissuto con la paura che il pubblico, confuso dal traffico del nuovo mercato fluido della musica, possa dimenticarti. Tanto che, serve specificarlo, la nostra personale convinzione è che difficilmente perderemo Elodie dai radar. Ci sono i featuring, c’è la tv, ci sono i social, mancherà solo, presumibilmente, nuova musica, e anche su quello abbiamo i nostri forti dubbi. Vedremo.
Spotify ha cambiato tutto
Quel che possiamo certificare è quest’ansia dell’apparire che serpeggia tristemente nel mondo della musica italiana. La situazione è certamente cambiata con l’avvento di Spotify, la piattaforma per l’ascolto di musica in streaming che ha risolto certi problemi (la musica in formato fisico stava assumendo dei costi quasi proibitivi, soprattutto a causa della pirateria) e ne ha generati altri. Non si tratta di una fine analisi, fu proprio Daniel Ek, CEO di Spotify, anni fa a dichiararlo in un’intervista, come se fosse la cosa più naturale del mondo: «Non puoi registrare musica una volta ogni tre o quattro anni e pensare che sarà sufficiente».
Nuovo mondo, nuovi mezzi per distribuire la musica, nuove regole. La democratizzazione violenta del mercato discografico altro non ha fatto che creare un caos totale e l’esigenza da parte degli artisti di avere sempre un lavoro caldo nel forno. Vi siete mai chiesti perché un disco viene spalmato in singoli nell’arco di, alle volte, un paio d’anni? Per questo. Nella maggior parte dei casi, i singoli che ascoltate non fanno parte di una narrativa più ampia, un disco. Si tratta, con le dovute eccezioni, è chiaro, di brani che hanno una (breve) vita a sé stante.
Vi siete mai chiesti perché siamo ogni settimana inondati da nuova musica? Per questo. Perché produrre un brano non costa più quasi niente, ascoltarlo non costa più quasi niente, quindi tutti pubblicano a ritmi forsennati. E questi non sono problemi da nulla, sono dinamiche che hanno fortemente condizionato il rapporto tra chi fa musica e chi la ascolta. Ma soprattutto, ha fortemente condizionato il rapporto tra la musica e chi la fa.
Il problema dei cantautori
Viene il dubbio che questo restringimento folle dei tempi di produzione di un’opera sia direttamente proporzionale alla sostanziale superficialità della stragrande maggioranza del pop odierno. Non è questo infatti un problema di Elodie o di tutti quegli interpreti di nuova generazione, quegli artisti che in pratica affondano le mani nel calderone di inediti di autori della propria etichetta e vanno in studio imboccati da un producer. Forse non a caso questa è l’epoca dell’autorialità dai ritmi industriali, pochi autori che sfornano brani pop con ritmi inauditi. Forse non a caso è questa anche l’epoca del rap, che pur avendo una dignità intellettuale del tutto valida, prevede una lavorazione di un brano molto più breve dato che nella maggior parte dei casi non vengono coinvolti nemmeno degli strumenti musicali.
Ma anche in questo caso ci sono delle eccezioni, la trilogia di Marracash è stata pubblicata nell’arco di sei anni (2019 Persona, 2021 Noi, loro, gli altri, 2024 È finita la pace) e infatti si tratta di un lavoro del tutto cantautorale, del tutto complesso, premiato con la Targa Tenco e forse la più importante opera rap della storia della nostra musica. C’è un modo per aggirare il problema dunque, volendo è possibile fregarsene. Certo, serve anche essere Marracash e di Marracash, fino a prova contraria, ne abbiamo uno solo.
I problemi affliggono più che altro i cantautori, coloro i quali devono far respirare la propria vena creativa, quelli che hanno bisogno di concedersi il tempo giusto per vivere ciò che poi dovranno raccontare. E se la discografia, il pubblico, non avessero più il tempo di aspettarli? Cosa accadrebbe? Che la nostra tradizione cantautorale, quella che rimpiangiamo con distorta rabbia, si andrà perdendo tristemente.
