I giovani laureati italiani faticano a trovare lavoro: siamo penultimi in Europa

I giovani italiani che hanno smesso di studiare e, nonostante un titolo di laurea in tasca, non riescono a trovare lavoro, sono il 37,2%

I dati Eurostat restituiscono un’immagine negativa del tasso di occupazione dei laureati italiani tra i 20 e i 34 anni. Se la media europea è dell’85,5%, i giovani che hanno ottenuto un titolo di laurea e hanno trovato un lavoro, nel 2018 e in Italia, è del 62,8%. Si tratta di ragazzi che non sono impegnati né in un prosieguo degli studi né in alcun percorso di formazione.


Fanalino d’Europa

L’unico Paese dell’Unione che mostra dei numeri peggiori è la Grecia, dove la percentuale di laureati con un impiego tra i 20 e i 34 anni è del 59,0%. Ma l’Italia si trova addirittura dietro Paesi come la Croazia (75,2%), la Spagna (77,9%) e Cipro (81,3%). Sul podio d’Europa ci sono Malta, dove lavora il 96,7% dei giovani laureati, i Paesi Bassi (94,8%) e la Germania (94,3%).


In generale, l’andamento europeo è in crescita. L’Unione ha fatto registrare un miglioramento del +0,6% rispetto al 2017 (i dati pubblicati si riferiscono al 2018). La situazione attuale è molto vicina ai livelli pre-crisi: rispetto al punto più alto del tasso di occupazione dei giovani laureati, l’86,9% riscontrato nel 2008, adesso l’Europa si trova solo dell’1,4% sotto quel record.

I dati Eurostat, in riferimento all’anno 2018

Il divario tra università e imprese

Abbiamo chiesto ad Adapt, associazione di studi e ricerche sul mondo del lavoro, una spiegazione sulla distanza dell’Italia dal resto d’Europa. «I motivi sono diversi, almeno due i principali. Il primo è la struttura delle imprese italiane, spesso piccole e con bassi livelli di innovazione, che non sono in grado di attrarre competenze elevate. E questo genera un cortocircuito perché da un lato non accolgono i giovani e le loro competenze, dall’altro senza giovani e competenze nuove non riescono a innovare».

«L’altra causa – continuano dall’ente di ricerca – è da trovare nelle università italiane: si muovono ancora in modo molto autoreferenziale, non dialogano con il mondo delle imprese, non innovano la didattica che resta spesso tradizionale e non immersa nel mondo reale. Il risultato è che spesso un laureato in materie umanistiche non riesce a trovare il lavoro che cerca perché non ha appreso come utilizzare le proprie competenze anche in settori che non sono strettamente quelli dei suoi studi, così che invece potrebbe fare se ben indirizzato».

In ritardo sulle professioni “culturali”

AlmaLaurea, consorzio Interuniversitario italiano, pare allineato con il parere di Adapt per quanto riguarda i lavori nel settore culturale. «È un paradosso che professioni storiche per il nostro Paese, come quelle legate al turismo – ha detto Ivano Dionigi, Presidente di AlmaLaurea -, non siano valorizzate e che il mercato del lavoro non paia attrezzato per cogliere le sfide del nuovo millennio puntando su professioni emergenti, come quelle legate alla tutela dell’ambiente.

Durante il Convengo di Matera intitolato Università e mercato del lavoro nell’ambito dell’industria culturale e creativa ha aggiunto: «Il settore culturale è il motore del Paese su cui investire incentivando il dialogo tra sistema formativo e produttivo e potenziando gli investimenti in questo comparto-chiave dell’economia. Abbiamo due beni unici e competitivi che non valorizziamo: il patrimonio culturale e paesaggistico e il capitale umano dei giovani. È una follia tenere queste due Ferrari nel garage».

Laurearsi conviene ancora

Sempre secondo le indagini di AlmaLaurea, il titolo di studio universitario continua a ridurre il rischio di restare intrappolati nella disoccupazione. «Generalmente i laureati sono in grado di reagire meglio ai mutamenti del mercato del lavoro, disponendo di strumenti culturali e professionali più adeguati», dicono dal consorzio. E i dati del 2018 confermano la tesi: considerando una fascia d’età decisamente più estesa, quella tra i 24 e i 60 anni, il tasso di occupazione di chi è laureato in Italia è pari al 78,7%. Chi possiede solo il diploma si ferma al 65,7%.

La documentazione pubblicata da AlmaLaurea sugli stipendi, che considera come anno di riferimento il 2014, evidenzia che anche il salario giova del titolo di studio universitario. In Italia, chi ha la laurea guadagna in media il 38,5% in più rispetto a un diplomato di scuola secondaria di secondo grado. Certo, l’università premia di più altri Paesi europei, in Germania chi ha finito l’università guadagna il 66,3% in più di un diplomato, in Gran Bretagna il 53,0%, ma anche per gli italiani resta la via preferenziale per trovare un lavoro che sia ben remunerato.

Poveri docenti, meglio ingegneri che avvocati

«Tra i laureati magistrali biennali sono soprattutto i laureati di ingegneria, dei gruppi scientifico e chimico-farmaceutico che possono contare sulle più alte retribuzioni: rispettivamente 1.762, 1.675 e 1.595 euro mensili netti – scrive AlmaLaurea nel Rapporto 2019 sulla condizione occupazionale -. Non raggiungono invece i 1.200 euro mensili le retribuzioni dei laureati dei gruppi psicologico e insegnamento».

Invece, per quanto riguarda i corsi di laurea magistrale a ciclo unico, «le retribuzioni più elevate sono percepite dai laureati del gruppo medico, 2.007 euro. Più contenute quelle del gruppo giuridico, che raggiungono i 1.343 euro mensili». I dati riguardano i giovani che hanno terminato il percorso universitario nel 2013 e sono stati interrogati a cinque anni dal conseguimento del titolo, nel 2018.

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