L’Aida “nera” è razzista? La lite tra il soprano Usa e l’Arena di Verona

L’interprete rischiava di non salire sul palco domenica 28 luglio, creando non pochi problemi al festival. Ma le parti sono riuscite a raggiungere un compromesso grazie alla scelta di un make-up alleggerito

Un soprano che non vuole prestare il suo volto a un cliché, visto negli Stati Uniti come razzista e bigotto. La Fondazione dell’Arena di Verona che non vuole rinunciare alla messa in scena dell’Aida nell’edizione storica di Ettore Fagiuoli che, nel 1913, inaugurò la stagione melodrammatica. La polemica tra attualizzazione e rappresentazione ortodossa dell’opera verdiana ha incendiato il clima veronese, ma alla fine domenica 28 luglio Wilson salirà sul palco: «Ma sono stata ingenua – ammette – dovevo saperlo che per questa edizione mi avrebbero obbligata a truccarmi».


La presa di posizione di Wilson

Il soprano americano, Tamara Wilson, scelta per interpretare l’Aida all’Arena di Verona, aveva deciso di non truccarsi per diventare nera. Il personaggio dell’opera di Giuseppe Verdi, secondo il libretto originale, è una principessa scura di pelle proveniente dalla Nubia, una regione dell’Egitto Meridionale. «Non voglio essere un ingranaggio nella ruota del razzismo istituzionalizzato – ha detto il soprano – Non mi farò più truccare e non indosserò il costume che hanno fatto mettere alle attrici finora».


Il compromesso

L’irritazione della Fondazione Arena è stata malcelata. L’ex collega di Wilson, il soprano Cecilia Gasdia, è la sovrintendente dell’organizzazione che cura la stagione. Senza esporsi direttamente, ha fatto filtrare un messaggio chiaro: le stagioni di opera lirica si organizzano prevedendo dei sostituti, se Wilson rifiutasse di entrare in scena con il trucco, ci sarà qualcun altro che lo farà al posto suo. Poi, il compromesso è stato raggiunto con gli agenti italiani del soprano: Wilson andrà sul palco domenica 28 luglio con un «make-up alleggerito», senza enfatizzare la fisionomia nubiana.

La blackface

Nell’Ottocento, quando nei teatri americani si voleva interpretare una persona di colore, l’attore bianco si dipingeva la faccia di nero (blackface) per calarsi nella parte. Prendevano il nome di “ministrel show”. Da cui un cocktail di stereotipi razzisti, dalle movenze ai dialoghi surreali. Ma la cosa più infima, era il tentativo di rappresentare il lavoro nelle piantagioni come una sorta di eden dove i lavoratori di colore vivevano una vita spensierata e felice. Una normalizzazione della schiavitù. Oggi, negli Stati Uniti, la pratica della blackface è riconosciuta unanimemente come gesto discriminatorio.

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