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“When they see us” e la politica dello showbiz: l’America di Trump, prima di Trump

12 Settembre 2019 - 05:50 Giada Ferraglioni
La miniserie di Ava DuVernay affronta il caso dei "Cinque di Central Park" e mette in luce come il carrierismo e l'interesse personale abbiano condizionato le indagini

In italiano c’è un bel termine, usato non meno spesso di altri, che è il verbo “risignificare”. Spesso liquidato con la definizione di «dare un significato nuovo», vuol dire piuttosto «rendere noto di nuovo». Riportare all’attenzione qualcosa in un modo diverso, per far sì che il senso di un concetto, di un avvenimento o di un valore non si perda nell’abitudine e nella quotidianità. È un meccanismo più che mai artistico e che – a volte accade – si ritrova inaspettato anche nelle serie tv trasmesse dai canali più mainstream.

È il caso di When They See Us, la miniserie distribuita da Netflix e prodotta da quattro case diverse, che ripercorre un famoso caso di cronaca americana della fine degli anni Ottanta. Un episodio che, riletto con la giusta capacità cinematografica, è in grado di metterci in guardia sui pericoli dell’attualità. E che ci ricorda che il modo in cui facciamo il nostro lavoro è in grado di plasmare la società in cui viviamo.

Netflix / Korey è ascoltato in tribunale

Acclamata dalla critica e candidata a 11 Emmy, When They See Us è stata scritta e diretta da Ava DuVernay, prima donna afroamericana nominata al Golden Globe per il film Selma – La Strada per la libertà, una rievocazione delle marce da Selma a Montgomery che nel 1965 segnarono l’apice della rivolta per il diritto di voto agli afroamericani.

La storia dei “Central Park Five”

Nella New York del 1989, gli afroamericani Antron McCray, Kevin Richardson, Yusef Salaam, Korey Wyse e l’ispanico Raymond Santana vennero accusati senza alcuna prova di aver violentato, picchiato e sodomizzato Trisha Meili, una ragazza di 28 anni, mentre faceva jogging a Central Park.

Con nessuna prova contro, i cinque ragazzi furono incastrati da alcuni video registrati durante gli interrogatori, nei quali vennero obbligati con la forza a confessare, con la promessa di venir rilasciati subito dopo. Nessuno di loro conosceva gli altri accusati, eccezion fatta per Yousef e Korey: il secondo, l’unico del gruppo che non andò in riformatorio e scontò 13 anni in una prigione per adulti, era andato in caserma solo per accompagnare il suo amico Yousef. A differenza degli altri, Korey uscì solo quando il vero colpevole confessò di sua spontanea volontà (nel 2002).

Giustizia venne fatta anche grazie all’attivismo della comunità afroamericana, che non si arrese alla sentenza. Antron, Kevin, Raymond, Korey e Yousef vennero risarciti dallo Stato con una somma complessiva di 41 milioni di dollari: una cifra record, che si proponeva di ripagare i danni fisici e morali di una detenzione ingiustificata.

Come scrisse il New York Times, l’aggressione della notte in cui morì Trisha fu «uno dei crimini di più ampia risonanza negli anni Ottanta»: giornali, radio e tv trattavano senza sosta di discorsi sul razzismo, violenza sulle donne, pena di morte e dichiarazioni sopra le righe di Donald Trump.

Lo show business fatto persona: Donald Trump e il caso mediatico

Cosa c’entri lo show business con il caso dello stupro di Trisha ce lo spiega When They See Us. All’epoca delle sentenze, l’allora non-presidente degli Stati Uniti ma importante business man Donald Trump acquistò per 85mila dollari una pagina del Daily News per inneggiare al ritorno della pena di morte.

«Ovviamente odio queste persone», diceva Trump ai microfoni della Cnn. «E odiamole tutti: perché forse l’odio è quello di cui abbiamo bisogno». Parole che poco avevano a che vedere con valori umani o rivendicazioni sociali, e molto con l’attenzione mediatica.

Fonte: Wikipedia / Pagina del “Daily News” firmata da Donald Trump

Cavalcando l’onda mediatica, le parole di Trump divennero centrali per la percezione comune del fatto. Tanto che lo stesso ex imprenditore è stato inserito da DuVernay in una delle puntate della serie, nella scena in cui una delle madri dei ragazzi ascolta alla Tv le accuse pubbliche di Trump (formulate a indagini in corso). Nella clip, presa dalla realtà, si sente l’attuale presidente degli Usa dire: «Vorrei essere un nero, di quelli intellettuali, perché credo che oggi abbiano un netto vantaggio».

Ancora oggi, dopo la confessione del vero colpevole, l’assoluzione totale dei cinque ragazzi e il risarcimento, Donald Trump è rimasto impassibile. Il 18 giugno di quest’anno, complice l’attenzione riportata sul caso dalla serie, il presidente degli Stati Uniti ha rifiutato di scusarsi: «Loro avevano ammesso la loro colpevolezza», ha detto. «Quindi lasceremo le cose come stanno».

La carriera prima di tutto: come l’interesse personale ha segnato lo svolgimento delle indagini

Era il 1969 quando il cantautore canadese Neil Young pubblicava il brano Here We Are in The Years, Eccoci qui negli anni. Anticipando di una decade il boom dalla società neoliberal-conservatrice, uno dei pilastri della controcultura musicale americana cantava: «Here We Are in The Years / Where the showman shifts the gears / Lives become careers / Children cry in fear / Let us out of here» («Eccoci negli anni / in cui lo showman cambia le marce / Le vite diventano carriere / I bambini piangono di paura»).

Il caso dei “Cinque di Central Park” scoppia al compimento del decennio dominato da Margareth Thatcher in Inghilterra e Ronald Reagan negli Stati Uniti. Tra le tante frasi che connotarono quelle leadership ci fu la thatcheriana «l’economia è il metodo per cambiare il nostro cuore e la nostra anima» e la reaganiana «quelle scimmie da quei Paesi africani». Lo spirito conservatore e l’accelerazione economica si fondevano in un mix dai numerosi effetti collaterali.

Netflix / I pm si avviano in tribunale

In When They See Us, il desiderio del successo a discapito di tutto non risparmia nessun ambito: c’è la procuratrice Linda Fairstein, che sacrifica la verità accelerando le indagini per potersi aggiudicare un caso che le avrebbe portato fama internazionale (e mancando, così, di rendere reale giustizia alla vittima); ci sono i giornalisti, che calpestano le vite delle famiglie degli accusati, enfatizzano i titoli e affrettano giudizi per vendere più copie o fare più ascolti; c’è l’avvocato bianco di uno dei ragazzi, che si lascia corrompere da un accordo con l’accusa per uscirne vincitore.

Un sistema che ha fatto perdere di vista il focus, quello della ricerca della verità per Trisha, che verrà ferita una seconda volta dall’arrivismo di chi avrebbe dovuto restituire dignità alla sua vicenda. E che invece passa alla storia come un personaggio laterale (è semplicemente “la jogger”), in una narrazione che ormai la vede in secondo piano rispetto agli abusi sui cinque innocenti del parco. E anche su questo When They See Us dovrebbe far riflettere.

Netflix / L’attrice che interpreta Trisha Meili durante una scena in Tribunale

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