Easy e la facilità apparente. La non-serie corale indie che ribalta “Sex and the City”

Uno scambio di battute al bancone di un bar diventa più importante, più centrale, del fatto che dalla porta di quel bar entrerà la donna a cui abbiamo rovinato la vita

Definire Easy una serie tv è già forse una forzatura, visto che manca quasi totalmente di serialità. Manca il climax a conclusione dell’episodio che ti spinge a cliccare repentinamente su quello successivo infastidito da intro e sigle, manca l’evoluzione dei personaggi attraverso la storia e soprattutto manca la struttura da romanzo d’appendice che è la cornice classica di ogni contenuto del genere.


Ma ciò che sostituisce l’ossatura tipica delle serie, anche di quelle più di successo, è un’originale interpretazione del genere stesso o, se si vuole, una contaminazione con il cortometraggio, senza i formalismi o lo sguardo un po’ snob di certi brevi pellicole da festival. Easy (produzione originale Netflix, tre stagioni) è una sorta di tram che si muove per la città (e vedremo quanto importante sia questa città) in modo circolare, imbarcando personaggi e le loro storie: alcuni tornano come pendolari, altri restano il tempo di un breve sguardo, come le passanti di Brassens.


La cifra stilistica richiama Joe Swanberg, guru del cinema indie americano e padre del mumblecore, il genere caratterizzato dai dialoghi che sembrano improvvisati, dalle location ripetitive e dalla recitazione “poco recitata”. Blue in the face senza Madonna, ma più millennial e animato da personaggi tendenzialmente appartenenti alla stessa classe sociale, cioè quella di professionisti più o meno impegnati in occupazioni creative che si muovono fra mostre, brunch e eventi culturali in genere.

Millennial, ma non troppo. Perché poi in realtà i personaggi hanno le età più variegate, dai venticinque ai cinquanta e passa, ma sembrano impersonare lo stesso spirito immaturo e spensierato, easy, appunto, anche se solo in apparenza. Prima di dire qualcosa sulle storie e sui personaggi è però indispensabile premettere che due sono i “protagonisti” della serie: il sesso e la città di Chicago.

Sì perché l’approccio, apparentemente, leggero, passa attraverso la declinazione sessuale dei rapporti di coppia in tutte le sue sfumature: esplicito, mercenario, coniugale, allargato, clandestino, intimo, esibito, lesbo, disperato. È la stazione di partenza e di arrivo del nostro tram. Tutto attorno però c’è Chicago, niente a che vedere con la rumorosa e metacinematografica New York che fa da sfondo anche a un prodotto tutto sommato simile come Master of None. La Chicago di Easy è una città che sembra proiettare e al tempo stesso instillare le pulsioni e i vai e vieni dei protagonisti.

Swanberg usa strade e locali come citazioni. Ma non è una mitologia la sua. Non racconta la grande anima della città, non cerca di restituircene un profumo da conservare. Il suo è una sorta di itinerario sentimentale, con alcuni punti fermi, come le stazioni di un Monopoli dei rapporti umani. E se il sesso è dove si parte e si arriva, il centro del percorso circolare è il Millennium Park e centro del centro è il Cloud Gate di Anish Kapoor, la grande nuvola in acciaio riflettente che dell’ombelico ha anche la forma.

Il sesso e la città, quindi. Verrebbe a questo punto da pensare a un Sex and the City indie ambientato non nella Grande Mela, ma nella ventosa Chicago. Fuoristrada. In primo luogo per la natura di antologia di corti da mezz’ora che è, come detto, la vera cifra distintiva di Easy. Storie che, nella maggior parte dei casi, sono compiute nel percorso dell’episodio.

Di più i personaggi di Swanberg, a cui capita di incrociarsi qualche volta pur nell’autonomia dei vari capitoli, costituiscono un coro laddove Carrie e le sue amiche sono una band, con una frontwoman decisamente carismatica. Anche in questo senso la città ha un ruolo diverso: Chicago è la quinta su cui rimbalzano le voci che fanno da sottofondo a quella principale, anzi quasi sempre alla coppia, che sta cantando l’assolo.

Elizabeth Reaser e Michael Chernus in una scena di Easy

La ragazza che cerca di diventare vegana, con scarso successo, per amore. La coppia sessualmente annoiata che prova le declinazioni dell’apertura. I fratelli birrai, per piacere o per denaro e le loro compagne con maggior fiuto per gli affari. Il tradimento con l’ex, classico. Il fumettista noto, ma in disgrazia, donnaiolo impenitente che sta scontando il suo contrappasso. Un giornalista che fa troppe domande. Gli affiatati abitanti di un quartiere che si alleano per catturare un ladro di pacchi Amazon, spoiler: non finirà bene.

Personaggi appena tratteggiati, anche quelli che ritorneranno nelle tre stagioni e di cui seguiremo le vicende. Definiti più dai dialoghi, dalle parole a latere che dai momenti centralmente più narrativi. È questa la facilità (apparente) dell’affrontare la vita, ma anche di mostrarla, secondo Swanberg. Uno scambio di battute al bancone di un bar diventa più importante, più centrale, del fatto che dalla porta di quel bar entrerà la donna a cui abbiamo rovinato la vita.

La scelta degli attori, in questo senso, non è stata di certo casuale. Due fra tutti il marito casalingo Michael Chernus, brillante attore teatrale, ma che noi tutti conosciamo come il fratello superficiale, easy, appunto, di Piper Chapman e Marc Maron, lo stand-up comedian che sembra recitare se stesso, carta al posto del palco, matita al posto della voce. Poi, fra capo e collo, verrebbe da dire, Orlando Bloom che nel flusso corale rischi di non isolare, se non fosse che ti appare come il Drew Baylor di Elisabethtown un po’ invecchiato: ma non è più tempo di diari di viaggio e romanticherie. Lui e la sua pseudo-Claire decidono, insieme, di cercare “un’amica” su Tinder.

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