Siria, la Turchia alle porte di Kobane. E Damasco avanza verso Raqqa

Le forze governative siriane sono state schierate a sud della città di Manbij, dove fino a pochi giorni fa era presidiata dalle forze statunitensi

Le forze lealiste siriane di Assad sono arrivate vicino a Raqqa e al confine con la Turchia, a sostegno dei curdi: sono avanzate nel nord-est siriano e arrivate ad Ayn Issa, tra Raqqa e il confine turco. Lo riferisce la tv di Stato siriana che mostra le immagini “in diretta” delle truppe di Damasco a 50 km a sud della frontiera turca.


Nel frattempo però dall’escalation militare si sfila la Russia, vista come la fautrice dell’accordo tra Damasco e i curdi. «Non ci piace nemmeno pensarlo», ha risposto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov quando gli è stato chiesto se la Russia potrebbe essere trascinata nel conflitto siriano a causa dell’intervento turco. Peskov ha poi precisato che fra Mosca e Ankara vi sono stati contatti al livello «dei presidenti» e «dei ministeri degli Esteri» nonché «fra le strutture militari».


Le truppe di Damasco erano già entrate, verso le 10 del 14 ottobre, a Tel Tamer, 35 chilometri a sud-est di Ras al Ain, uno dei punti focali dell’assalto di Erdogan contro i curdi a cui Damasco è stata chiamata a reagire. Una mossa che sarebbe avvenuta con il benestare di Vladimir Putin, considerato l’arbitro dell’accordo tra curdi e siriani avvenuto nelle scorse ore. Tel Tamer si trova su un’autostrada strategicamente importante, che percorre il Paese da est a ovest e che i turchi hanno dichiarato ieri sotto il loro controllo.

Le forze governative siriane erano state schierate in mattinata lungo la cosiddetta linea Sajur, a sud della città di Manbij. Una zona che fino a pochi giorni fa era presidiata dalle forze statunitensi.

Erdogan annuncia l’attacco a Kobane

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, si è detto soddisfatto del ritiro delle truppe Usa e ha affermato che 550 «terroristi» (termine che usa per riferirsi ai combattenti curdi) sono stati «neutralizzati». 500 di questi sarebbero stati uccisi, 26 feriti e 24 arresi.

Recep Tayyip Erdogan. EPA/STR

«Attaccheremo Kobane», ha affermato Erdogan, «e la Russia non ci causerà problemi». Il presidente turco ha aggiunto che attaccherà anche Manbij, e ha attaccato la copertura giornalistica del suo attacco: «Hanno lanciato 600 colpi di mortaio oltre il confine, non è comprensibile come questo venga oscurato», ha affermato.

Dal Cremlino oggi Peskov non ha commentato in modo chiaro – né confermato – le affermazioni di Erdogan secondo cui l’intervento su Kobane è stato concordato con Putin.

Lato turco, carri armati e mezzi blindati sono entrati durante la mattinata del 13 ottobre a ovest del fiume Eufrate, nel nord della Siria, per sferrare un attacco a Kobane dal fronte occidentale, un’area già controllata dalla Turchia.

Intanto Donald Trump tuona su Twitter: l’Ue si riprenda i prigionieri dell’Isis. «L’Europa se li sarebbe dovuti prendere indietro già prima dopo numerose richieste, senza permettere loro di scappare», scrive, «Devono farlo ora. Quei prigionieri non verranno mai negli Usa, non lo permetteremo».

Due giornalisti sono rimasti uccisi in un attacco sferrato dalla Turchia a un convoglio di reporter in Siria: un giovane dell’agenzia curda Hawar e uno ancora non identificato. Il messaggio dell’attacco turco è chiaro: i giornalisti devono stare alla larga dal confine sud siriano, dove le truppe di Recep Tayyip Erdogan stanno avanzando.

L’intervento dell’esercito siriano

I curdi hanno stretto un accordo con il presidente siriano Bashar el Assad per fermare l’avanzata turca al confine. Lo fa sapere il loro governo tramite un post su Facebook: «Per fermare e reagire a questa aggressione è stato raggiunto un accordo con il governo siriano affinché l’esercito possa scendere in campo lungo il confine tra Turchia e Siria per assistere le Forze Democratiche Siriane». Le forze di Damasco si stanno avvicinando infatti alla frontiera con la Turchia.

L’intervento è volto a proteggere due città chiave: Manbij e Ayn Arab (Kobane in curdo), rispettivamente a ovest e a est dell’Eufrate. Il ritorno delle forze governative nella regione dove i curdi avevano costruito un governo semi-autonomo durante gli otto anni di guerra è un duro colpo per la popolazione locale.

L’appello dell’Ue e il ruolo di Putin

Il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas ha deciso di fermare le vendita di armi alla Turchia per colpire l’operazione militare dopo che l’anno scorso la Germania aveva venduto 240 milioni di euro di armi alla Turchia. Erdogan ha reagito facendo la voce grossa: «Dopo che abbiamo lanciato la nostra operazione, hanno minacciato di imporci sanzioni economiche e l’embargo sulla vendita di armi. Ma quelli che pensano di poter fermare la Turchia con queste minacce si sbagliano di grosso», ha annunciato.

Nemmeno la telefonata di Angela Merkel, l’appello di Macron, della Lega Araba o del Papa che chiedevano di fermare l’operazione sembrano aver sortito alcun effetto. Oggi Francia e Germania ribadiranno il loro appello mentre l’Italia dovrebbe sollecitare l’Europa a mettere fine alla vendita d’armi. «Il Governo è al lavoro affinché l’opzione della moratoria nella vendita di armi alla Turchia sia deliberata in sede europea quanto prima possibile» si legge in una nota della Farnesina.

Anche Vladimir Putin ha attaccato la Turchia il 12 ottobre affermando che «Tutte le truppe straniere presenti ‘illegalmente’ in Siria devono andare via. Se il futuro legittimo governo della Siria dovesse dire che non ha bisogno che le truppe russe siano presenti lì, questo riguarderebbe anche la Russia». Ed è anche intervenuta, la Russia, per permettere all’esercito governativo siriano di entrare in campo nell’est della Siria a sostegno delle truppe curde.

Il «tradimento» americano

Gli Stati Uniti hanno poi annunciato il ritiro di un centinaio di marines dalla zona di Kobane, dove la Turchia ha sferrato il 13 ottobre un attacco di artiglieria. Pare che Erdogan fosse al corrente della presenza degli americani quando ha iniziato a bombardare: per Brett McGurk, l’ex inviato speciale dei presidenti Usa nella campagna contro l’Isis, l’attacco turco «non è stato un errore».

«Le conseguenze dell’attuale crisi erano del tutto prevedibili e nonostante questo gli Usa hanno dato la luce verde», ha denunciato il generale americano John Allen, ex capo delle forze Usa in Afghanistan, «Questo è quello che succede quando il presidente Trump segue il suo istinto e si allinea con gli autocrati», ha commentato.

Quando Donald Trump ha ordinato il ritiro delle truppe Usa dalla Siria per consentire l’operazione militare turca, commentatori ma anche membri del partito Repubblicano hanno espresso due grandi perplessità. Che l’atto avrebbe fatto tornare l’Isis a essere una minaccia e che nessuno da quel momento in poi avrebbe voluto allearsi con l’America per paura di essere tradito e abbandonato.

Sul secondo punto è troppo presto per parlare ma sul primo i detrattori del gesto di Trump avevano ragione: i curdi, impegnati a difendersi dall’attacco turco hanno smesso di combattere lo Stato Islamico e di sorvegliare le prigioni dove sono rinchiusi gli ex combattenti. Pare che più di 800 prigionieri dell’Isis siano scappati dalla prigione dove erano rinchiusi.

Il capo della Casa Bianca sembra aver fatto un leggero passo indietro. Mentre continua a rivendicare il ritiro delle truppe, afferma con altrettanta risolutezza che imporrà delle sanzioni sulla Turchia. «Stiamo discutendo con molti membri del Congresso, tra cui dei Democratici, di imporre potenti sanzioni contro la Turchia», ha twittato Trump. «Il tesoro è pronto e forse introdurremo delle nuove leggi. C’è un grande consenso su questo. La Turchia ha ci ha chiesto di non farlo. Restate sintonizzati!»

Combattenti siriani pro-Turchia con la bandiera turca in Siria del Nord, nell’area curda verso il confine con la Siria, nel distretto Akcakale a Sanliurfa, Turchia, 14 ottobre 2019. EPA/Sedat Suna

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