Coronavirus, perché non si tratta ancora di pandemia. E quali devono essere le caratteristiche perché lo sia

Sembra sia ancora troppo presto per utilizzare certi termini, il livello di allarmismo rimane dunque contenuto

«Non siamo in una situazione di pandemia». Così, due settimane fa, la direttrice del dipartimento Preparazione mondiale ai rischi infettivi dell’Oms, Sylvie Briand, spiegava al mondo quale sia lo stato attuale delle cose, a che grado di pericolo ci troviamo e se i contagi da Coronavirus siano da considerarsi un’emergenza globale.


«Non siamo in una situazione di pandemia; al contrario – ha rilevato Briand – siamo in una fase in cui si ha una epidemia con focolai multipli». Da quando è stato dato l’allarme, la malattia ha ucciso più di 425 persone e gli infetti sono oltre 20 mila in Cina. Dal primo focolaio, localizzato nella città cinese di Wuhan, nella quasi totalità i contagi sono stati registrati nella provincia dello Hubei, epicentro dell’epidemia.


Da dicembre scorso, la malattia ha raggiunto 24 paesi nel mondo. Briand ha spiegato che, si sta verificando sì un repentino aumento dei casi di contagio nello Huberi, ma fuori da quei confini, i casi sono sporadici, a trasmissione lenta. Le autorità cinesi hanno preso misure drastiche per fermare la trasmissione, mentre gli altri paesi coinvolti hanno anch’essi varato misure per evitare la diffusione del virus. «Speriamo che basandoci su queste misure in Hubei ma anche negli altri paesi, potremo fermare la trasmissione e liberarci del virus», ha detto.

Quando si parla di pandemia

Nonostante un livello ancora contenuto di allarmismo, gli scienziati che in questi mesi si stanno dedicando allo studio del 2019-nCoV – questo il nome del virus – giurano che questo abbia tutte le caratteristiche per dare vita a una pandemia.

Si può parlare di pandemia quando una malattia infettiva mette in serio pericolo la vita di persone diverse – simultaneamente – in zone diverse del mondo. Se malattie come il coronavirus, dunque virali, nate da agenti patogeni ancora sconosciuti per la scienza – per i quali quindi non esiste vaccino e il corpo umano non ha anticorpi adatti a combatterlo -, si trasmettono con facilità e con velocità da persona a persona, si può allora – per ipotesi – parlare di pandemia. Il coronavirus è un ottimo candidato per questo tipo di fenomeno.

La faccenda potrebbe diventare più drammatica se dovessero nascere focolai – come quello di Wuhan – anche nei Paesi in cui il virus è stato esportato. Per rendere tutto più comprensibile e schematico, l’Oms ha stilato una classificazione in sei fasi per capire al meglio come un virus diventi pandemico: si comincia con la trasmissione tra animali (fase 1); poi si passa ai contagi da uomo a uomo (fase 4), fino alla capacità di sostenere focolai locali in almeno un altro Paese al di fuori di quello di origine.

Non è il tasso di mortalità, quanto la trasmissibilità a rendere una malattia potenzialmente perfetta per per dare vita a una pandemia. Se si pensa al cancro, questo ha un elevato tasso di mortalità, eppure non è una pandemia. Diverso, invece, il caso della cosiddetta “febbre suina” del 2009: con un tasso di mortalità relativamente basso (stimato tra lo 0,02% e lo 0,1 % – contro circa lo 0,2% dell’influenza stagionale e il 2% circa del nuovo coronavirus), quando fu dichiarata pandemia, la malattia si era diffusa in almeno 74 Paesi, colpiva anche nei mesi estivi e riguardava una fascia di popolazione normalmente meno vulnerabile a malattie di questo tipo.

Il giudizio dell’Oms

Per Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, la diffusione del nuovo coronavirus al di fuori della Cina appare al momento «minima e lenta». Le attività mediche e di monitoraggio dovranno, sempre secondo Ghebreyesus, servire a debellare il virus nel suo epicentro, dove ha avuto origine: questo perché manca un vaccino.

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