Coronavirus, il Piemonte è un caso. Icardi: «Noi partiti tardi con i tamponi ma l’Emilia-Romagna fa meno test nelle Rsa» – L’intervista

Per l’assessore alla Sanità piemontese la regione non avrebbe responsabilità sui contagi nelle Rsa: «Abbiamo dato le indicazioni alle strutture, ma il nostro compito di vigilanza è limitato»

«Non siamo la feccia del mondo, abbiamo lavorato come gli altri». Luigi Genesio Icardi, assessore alla Sanità in Piemonte, ribadisce che per lui «non esiste un caso Piemonte». Eppure, il 25 aprile, il Piemonte ha superato per numero di casi totali l’Emilia-Romagna, diventando la seconda regione più colpita dal Coronavirus: 24.426 contro 24.209.


Quello che stupisce, però, è che il sorpasso è avvenuto nonostante in Piemonte siano stati effettuati oltre 20.000 tamponi in meno rispetto all’Emilia-Romagna. Per l’assessore «l’aumento delle nuove diagnosi è dovuto soprattutto alla strategia di screening massiccio adottata nelle Rsa».


«Dai primi giorni di aprile sono stati testati migliaia tra ospiti e operatori sanitari delle Rsa piemontesi – afferma Icardi -. Negli ultimi 20 giorni abbiamo registrato una media di 597 nuove diagnosi di positività al giorno di cui una quota, che oscilla tra il 50% e il 65%, attribuibili alla popolazione presente nelle Rsa».

Assessore, c’è un dato oggettivo: il Piemonte è diventato la seconda regione d’Italia per incidenza del Coronavirus, cosa avete sbagliato?

«Innanzitutto nel numero dei morti il Piemonte è ancora distante dall’Emilia-Romagna. Sì, oggi il Piemonte diventa la seconda regione in Italia per casi totali. Ma c’è una spiegazione scientifica, non un errore della giunta regionale».

Ce la dica.

«Abbiamo decuplicato la capacità di fare tamponi».

Una colpa allora può essere considerata la partenza molto blanda per numero di test eseguiti. L’Emilia-Romagna ne ha fatti ben 20.000 in più di voi.

«Siamo partiti molto bassi, è vero. Il Piemonte non aveva una struttura operativa laboratoristica di biologia molecolare in grado di funzionare come altre regioni. Appena scoppiata l’emergenza, abbiamo fatto il possibile per acquistare macchinari e reagenti e siamo arrivati alla potenzialità di 7.000 tamponi giornalieri. Poi il ritardo è dovuto anche al fatto che abbiamo seguito le indicazioni dell’Istituto superiore di sanità che ci dicevano di testare solo i sintomatici».

Quel ritardo nei test ha influito nella diffusione del virus nella sua regione?

«Non propriamente: i nostri specialisti ci dicono che il quadro clinico è sovrano. Il tampone è certamente una conferma, ma è un’istantanea di quel giorno il cui risultato, all’indomani, può rivelarsi infedele. Insomma il tampone non è quella panacea che pensiamo e che serve a dimostrare la diffusione del virus».

Guardando i dati della Protezione civile, il Piemonte esegue all’incirca la stessa quantità di test giornalieri dell’Emilia-Romagna. Come mai i nuovi casi positivi, invece, nella sua regione crescono a una velocità doppia?

«È una nostra strategia deliberata: abbiamo scelto di fare i tamponi in maniera mirata. Abbiamo preso a tappeto tutte le Rsa, che sono i luoghi dove il virus si diffonde con più facilità. Riscontriamo più casi positivi perché li andiamo a cercare nelle strutture per anziani».

Anche le altre regioni fanno i tamponi dove ritengono plausibile trovare casi positivi.

«Sì, ma ci sono regioni che non effettuano tamponi a tappeto nelle Rsa. Oltre il 60% dei nostri tamponi è indirizzato alle Rsa. In Emilia-Romagna, visto che tutti fanno il paragone con quella regione, so che non è così. Per questo trovano meno positivi».

Infografica della Regione Piemonte fornita dall’assessore Icardi

Comunque qualcosa non ha funzionato visto che ci sono cosi tanti contagiati nelle Rsa piemontesi, non trova?

«Dal 23 febbraio abbiamo emesso un’ordinanza che imponeva alle Rsa la limitazione dei contatti esterni. Alcune strutture si sono comportate bene e altre meno bene e sono quelle dove si sono generati focolai importanti».

Ma la regione ha l’obbligo di vigilanza sulle strutture per anziani.

«Abbiamo imposto la limitazione degli accessi e le misure di prevenzione. Parliamoci chiaro però: le Rsa sono strutture che hanno una gestione autonoma. Hanno un proprio direttore sanitario. Non fanno parte del sistema sanitario. Noi abbiamo dato delle indicazioni. Certo ogni Asl ha una commissione di vigilanza sulle strutture residenziale. Ma i suoi compiti sono verificare le condizioni strutturali, i requisiti gestionali e d’igiene. Una al massimo due volte l’anno fa una verifica. Questa è la vigilanza».

In un protocollo regionale, però, avete dato indicazione di ospitare i pazienti Covid-19 nelle Rsa. Questa misura non può aver contribuito alla diffusione del virus nelle strutture?

«Assolutamente no perché solo una Rsa su 750 del Piemonte, che è tra le regioni con il più alto numero di residenze, ha accettato di avere un reparto Covid separato al suo interno».

È la crescita importante dei casi a Torino come la spiega?

«L’area metropolitana di Torino fa da sola il 50% degli abitanti del Piemonte. È ovvio che l’alta concentrazione di popolazione favorisca il contagio. La peculiarità della situazione di Alessandria, invece, è dovuta agli ampi focolai che si sono sviluppati nella fase iniziale».

Provo a riassumere: l’alta incidenza dei casi in Piemonte è dovuto principalmente alla diffusione del virus nelle Rsa.

«No, se facciamo affidamento sui dati, bisogna dire che è dovuta alla politica di tamponamento. Noi andiamo nelle Rsa critiche e facciamo tamponi a tutti, anche al personale. Se domani cambiassimo politica di tamponamento e andassimo a testare i lavoratori o altre categorie, i casi da 700 al giorno passerebbero a 100».

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