L’Umbria leghista cancella l’aborto farmacologico: tre giorni di ricovero obbligatorio

Il nodo è sull’interpretazione della legge 194, che prevede sì che la donna venga ricoverata per una Ivg, ma anche che le singole regioni possano organizzarsi in maniera differente

La governatrice leghista Donatella Tesei cancella l’aborto farmacologico – e il day hospital – in Umbria. Le donne che vogliono sottoporsi a una interruzione di gravidanza volontaria dovranno necessariamente farlo con tre giorni di ricovero in ospedale. E questo nonostante siano ormai 11 anni che (almeno in teoria) anche in Italia è possibile abortire farmacologicamente ricorrendo alla pillola RU 486.


La novità arriva con l’approvazione, da parte della giunta regionale umbra, di una delibera, proposta dall’assessore alla Sanità Luca Coletto, con cui viene definitivamente abrogata la sperimentazione dell’Ivg farmacologica in regime di day hospital. «Da adesso in avanti», ricostruisce il movimento Non Una di Meno sulla sua pagina Facebook, «le Ivg farmacologiche dovranno essere effettuate in ricovero ospedaliero di 3 giorni, segnando un arretramento in campo medico-sanitario e di diritti sociali».


Da un lato il movimento femminista promette battaglia. Dall’altro arriva il plauso, prevedibile in verità, di un nome che da sempre è al centro delle controversie nelle battaglie sui diritti delle donne: l’ultracattolico senatore leghista Simone Pillon, “padre” di quel decreto sull’affido condiviso mai diventato legge e che tante mobilitazioni contrarie della società civile ha visto durante il governo Conte I.

ANSA/Riccardo Antimiani |Il senatore della Lega Simone Pillon (S) mentre scherza con alcuni colleghi di partito durante la discussione generale sul decreto fiscale al Senato, Roma, 17 dicembre 2019.

Cosa è successo

Che l’epidemia Coronavirus abbia – in tutto il mondo e per invocate ragioni sanitarie – messo in pericolo il diritto all’aborto delle donne è un dato di fatto che ha cominciato a popolare le cronache – italiane e internazionali – appena si è potuto tracciare un primo bilancio dal lockdown in avanti. Ricorrere all’aborto è semplicemente diventato ancora più difficile. Da oggi sarà così anche in Umbria. Qui il nodo è sull’interpretazione della legge 194, che prevede sì che la donna venga ricoverata per sottoporsi a una Ivg, ma anche che le singole regioni possano organizzarsi in maniera differente.

Da qui, nel 2018, la decisione della giunta precedente di centrosinistra guidata da Catiuscia Marini che – con DGR 1417 del 4 dicembre 2018 sulla R486, «relativamente all’opportunità di somministrare la RU486 in regime di ricovero in day hospital» – aveva introdotto la sperimentazione con la possibilità di abortire grazie alla pillola RU 486 entro la settima settimana di gravidanza e con la richiesta agli ospedali di organizzarsi per la somministrazione in day hospital o addirittura in assistenza domiciliare. Ora la retromarcia, con la Deliberazione del 10 giugno 2020, n. 467, contenente le «Linee di indirizzo per le attività sanitarie nella fase 3».

Peccato che la sperimentazione «sia in corso da tempo anche altre regioni: le prime ad adottare il day hospital sono state Emilia Romagna, Toscana e Lazio», spiega Eleonora della rete Obiezione Respinta, «seguite poi anche da Puglia e Lombardia». Ora questo passo indietro. «Noi, le compagne umbre e tutta Non Una di Meno non resteremo a guardare. Anche perché quello che accade è semplicemente che le donne (del Molise per esempio, o ora dell’Umbria) decidono e deciderrano di ricorrere all’Ivg farmacologica recandosi nella regione più vicina dove è più semplice abortire».

L’aborto farmacologico e la 194

L’Italia è tra i pochi Paesi che chiede il ricovero per legge della donna che voglia abortire. Poi è arrivata la RU489, introdotta più di dieci anni fa, nel 2009: e oggi, nonostante si tratti della pratica meno pericolosa e invasiva cui ricorrere, rappresenta il 18% delle Ivg in Italia. In Francia è la percentuale è del 60%, nel Nord Europa il 90%.

La stessa Società Italiana Ginecologi ed Ostetrici (SIGO) ad aprile diceva – lo ricordano i consiglieri di opposizione Pd e M5s alla giunta guidata da Tesei – «che si dichiara favorevole a una maggiore diffusione dell’aborto farmacologico, a tutela della salute e dei diritti delle donne, che rischiano di essere negati a causa dell’emergenza sanitaria in corso».

La Giunta regionale «ha scelto l’obbligo di ospedalizzazione forzosa di almeno tre giorni, rendendo volutamente ad ostacoli il percorso per ottenere l’opzione farmacologica, aumentando le spese del sistema sanitario regionale e, in epoca Covid, allungando paradossalmente le degenze», aggiungono i consiglieri di Pd e M5s.

Pillon e Nudm

ANSA/Giuseppe Lami | Un momento della contestazione di esponenti dell’associazione ”Non una di meno” all’esterno della Sala Consiliare del I municipio di Roma durante l’incontro con il senatore Simone Pillon, Roma 31 gennaio 2019.

«La scelta di aderire alla legge nazionale in merito all’interruzione di gravidanza volontaria non va nella direzione ideologica o conservatrice, ma è spinta da un intento di tutela della salute della donna», assicura in serata la presidente Tesei. «Non si vuole rendere più difficile e ad ostacoli la pratica in questione, ma la si vuole invece rendere più sicura, nel rispetto e nella tutela dei diritti acquisiti e delle scelte personali, che non sono in discussione».

Trionfante dal canto suo il senatore Simone Pillon: «Da oggi evitiamo che la donna sia lasciata sola davanti a eventuali rischi come emorragie, infezioni o altre complicanze», dice. Pillon «si fa portavoce delle richieste delle donne e di bisogni che non ha mai voluto ascoltare, come abbiamo visto proprio con il ddl Pillon, una legge violenta e fortemente attaccata dai Centri Anti-violenza e dai movimenti ed associazioni femministe», replicano da Non Una di Meno.

«Oltre a ciò, Pillon parla strumentalmente di “gravidanze difficili” per non menzionare l’aborto che non solo non viene tutelato da questa delibera ma, come già sottolineato, lo rende meno praticabile, in particolar modo in questa fase post-lockdown in cui gli ospedali pubblici sono ancora in fase di riassestamento».

Nella foto: una manifestazione di Non una di meno a Roma nel 2018

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