L’ultimo discendente del generale negriero: «Ben venga vandalizzare il busto di “nonno” Baldissera se serve a far riflettere»

A casa ha ancora una sciabola del trisavolo in cantina: «Il razzismo? Stiamo andando in una direzione preoccupante: proprio per questo parlarne, e parlare anche della nostra storia coloniale, è importante»

Quando ha visto il busto del suo trisavolo, il generale Antonio Baldissera ricoperta di vernice rossa per l’azione di alcuni attivisti anti-razzisti a Roma, ha alzato le spalle. E sorriso. «In un momento come questo, le azioni simboliche e non violente sono da capire», dice Luca Baldissera, trisnipote del generale che fu a capo delle truppe italiane nel 1888 e la cui effige – uno dei 229 busti di italiani illustri della passeggiata del Pincio a Roma – è stato ricoperto di vernice rossa dagli attivisti della Rete Restiamo Umani sulla scia del movimento Black Lives Matter.


«Se questi gesti fanno riflettere lo scopo è raggiunto, e vale più di un busto che – tra l’altro – con 10 minuti di idropulitrice ritorna come nuovo», sorride. Antonio Baldissera «era il fratello del mio trisnonno».


ANSA/Fabio Frustaci | Il busto di Antonio Baldissera imbrattato al Pincio, Roma 19 giugno 2020.

50 anni, Luca si occupa della comunicazione per un’azienda di abbigliamento sportivo. Scrive anche per testate specializzate nel tennis, sport di cui è anche allenatore. È di Udine, lì dove la famiglia ha le sue origini, e oggi vive a Trieste. «Il generale ha avuto due figlie che a loro volta non hanno avuto figli. Suo fratello invece sì e ora quella linea Baldissera finisce con me, non ci sono altri discendenti», racconta. «Ai figli – che non ho – racconterei quello che si sa. Contestualizzando ma non edulcorando, ecco».

Cosa ha provato quando ha visto ha visto il busto del trisavolo ricoperto di vernice rossa?

«Ho pensato che la storia di quel periodo andrebbe studiata di più: Antonio Baldissera non era il negriero peggiore. Anzi, per il suo approccio più volto alla diplomazia con le tribù, rispetto al cieco massacro a occhi chiusi che andava tanto di moda, era stato pesantemente criticato in Italia. Però, come ho scritto su Facebook: alla fine chi se ne importa. Pure se illuminato per l’epoca, il trisavolo sempre un negriero restava. Se passa il messaggio, per me va bene così. E pace per le statue: è un gesto, quello degli attivisti, che capisco perfettamente».

In famiglia avete parlato di quell’epoca storica, dell’Eritrea, del passato colonialista italiano?

«Poco. Più che altro al liceo ho avuto professori di storia molto interessati a questo mio avo illustre. Ho letto qualche documento originale dell’epoca che avevamo a casa, per capire personalmente come si erano svolte le vicende. Ma alla fine non era un grande argomento».

Cosa ha scoperto da quei documenti?

«Avevo a casa una prima pagina della Domenica del Corriere con una vignetta satirica che raffigurava il generale come un re nero, con le collane di oro e tutto, e le schiave con i ventagli di pavone, per criticarne l’atteggiamento non abbastanza intransigente. Anche la famosa filastrocca citata da Silone in Fontamara (“Non ti fidar della gente nera, o Baldissera”) era figlia delle posizioni politiche di Francesco Crispi e compagnia bella. E poi a casa ho ancora qualche cimelio del Generale, conservato da mio padre. La sciabola da parata, per esempio, che credo sia in cantina», spiega».

Facebook/Luca Baldissera

E perché secondo lei se ne parlava poco?

«Per me era interessante. Per altri in famiglia – per esempio per i nonni che avevano fatto due guerre – forse meno. Non so perché, alla fine. In generale il colonialismo italiano è sempre passato sotto traccia, anche a livello di divulgazione. I militari però sanno tutto. Ricordo quello che mi è successo alla visita di leva: ‘Beh, Baldissera, vista la storia della tua famiglia, farai sicuramente la carriera militare, vero?’, mi ha chiesto un colonnello. Ho dovuto trattenermi dal ridergli in faccia».

Cosa pensa di tutta la polemica che si è sviluppata intorno al movimento Black Lives Matter e delle statue abbattute?

«Per lavoro mi capita di andare per alcuni mesi all’anno negli Stati Uniti: seguo il tennis professionistico, vado a New York, California, Florida. Il razzismo è evidente e impressionante. Non vedi mai, mai, una persona che non sia nera o messicana a girare hamburger, fare le stanze e le pulizie negli alberghi, stare alla cassa dei 7-Eleven nei turni di notte. C’è anche molta ghettizzazione: i quartieri bianchi e belli stanno da una parte, i “black neighbourhoods” dall’altra, così ben separati che è capitato che ci fossero incidenti anche gravissimi (hanno sparato) solo perché un nero “passava dove non doveva”. Parlo di Miami, Los Angeles… Nel Midwest non sono mai stato, ma mi dicono sia anche peggio. Sono al 100% un sostenitore di BLM, e francamente ci mancherebbe altro».

E cosa pensa del dibattito in Italia sulla statua di Indro Montanelli, pure imbrattata da un collettivo di studenti?

«Trovo Montanelli e quello che racconta di avere fatto stomachevole, così come chi lo difende. Le statue… Mah, dipende dal contesto. In ogni caso una statua è nulla rispetto alla vita reale della gente. In Italia il razzismo mi sembra più un discorso di propaganda per la destra che un problema reale: proprio perché i numeri sono ben diversi. Certo, stiamo andando su una strada preoccupante anche noi: proprio per questo parlarne, e parlare anche della nostra storia coloniale, è importante».

In copertina ANSA/Fabio Frustaci | Operazioni di pulizia sul busto di Antonio Baldissera imbrattato al Pincio, Roma 19 giugno 2020.

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