Tasse, terziario e borse di studio: così l’Italia può aumentare il numero di laureati grazie al Recovery Fund – L’intervista

Il piano pubblicato dal governo pone l’obiettivo senza spiegare come intende raggiungerlo. Per Federica Laudisa, ricercatrice presso Ires Piemonte, occorre puntare su borse di studio, agevolare le tasse universitarie e intervenire sulla scuola

Tra gli obiettivi presenti nel piano guida del governo su come spendere i 209 miliardi di euro del Recovery Fund c’è anche quello di «aumentare la quota di giovani diplomati e laureati». In una nota a lato si legge anche che l’Unione europea ha raggiunto l’obiettivo di portare in media il 40% della popolazione a ottenere uno studio di titolo terziario, mentre in Italia quel numero è pari a 26,6%. Forse si dovrebbe dedurre da questo – come ha fatto il Sole 24 Ore in un articolo pubblicato ieri – che il governo intende raggiungere gli altri Paesi europei, anche se dal programma non si evince né come potrebbe farlo, né tantomeno entro quando.


Raggiunta al telefono Federica Laudisa, ricercatrice dell’Istituto di ricerche economico sociali del Piemonte (Ires) ed esperta di politiche per il diritto allo studio universitario, ricorda che la soglia del 40% era stata fissata come obiettivo nel lontano 2010. All’epoca l’Italia – ferma al 20% – si era accontentata del 26-7%, traguardo raggiunto in seguito «oso dire un po’ per caso anche grazie a un aumento della platea dei diplomati». Adesso potrebbe prendere il proprio destino in mano e puntare più in alto.


Cosa è stato fatto in passato su cui si può continuare a lavorare? 

«Una misura importantissima è stata quella della no-tax area, introdotta nel 2017. Ha fatto sì che coloro che hanno un reddito inferiore ai 13mila euro sono totalmente esentati delle tasse universitarie. Gli atenei in Italia hanno totale autonomia nell’applicazione delle politiche contributive: il fatto che abbiano accettato di adeguarsi a questa riforma è stato un importantissimo passo in avanti. Il problema è che è poco conosciuta: se noi facessimo un’indagine tra gli studenti delle scuole superiori credo che una minoranza saprebbe dire cos’è. Purtroppo a livello mediatico non è stato dato alcun risalto a questa misura».

In un articolo recente su Lavoce.info lei ne criticava la portata. Perché?

«Si, perché anche se nel decreto Rilancio sono stati stanziati 175 milioni da distribuire agli atenei a fronte di un aumento nella soglia Isee da 13mila fino a 20mila euro, ma soltanto per il prossimo anno accademico. Quindi bisognerebbe estenderla permanentemente a 20mila euro, anche se alcuni atenei hanno già provveduto, ma altri sono fermi. Spesso si dice che in Italia l’università costa poco, ma se guardiamo altri Paesi non è così. Per esempio in Germania non si pagano tasse universitarie, solo una piccola tassa amministrativa e in Francia ammontano a qualche centinaio di euro. Sicuramente per aumentare gli iscritti serve un’agevolazione delle tasse universitarie, ma occorre anche fare un’opera informativa nelle scuole».

E poi ci sono le borse di studio.  

«Il problema delle borse di studio è che attualmente i beneficiari sono poco più del 10% della platea degli studenti. In Francia il 40% degli studenti ha accesso alla borsa di studio: noi siamo nell’ordine di 205mila studenti, in Francia siamo sui 700mila. In Germania uno studente su cinque e in Spagna uno su quattro ne beneficia. Non è soltanto una questione di risorse, ma conta anche la tempistica, perché le graduatorie escono verso fine settembre e lo studente deve la prima rata qualche mese dopo, verso fine dicembre e gennaio. Più che una borsa di studio si tratta di un rimborso spese. Inoltre, la copertura non è totale: non tutti coloro che ne hanno diritto la ricevono».

Le linee guida del governo non parlano né di borse di studio, né di tasse universitarie. La sorprende?

«Mi auguro che siano ancora a un livello precedente. Ma non mi sorprende. I vari piani nazionali di riforma dei governi che si sono susseguiti negli anni dovevano elencare come raggiungere gli obiettivi che si ponevano, ma le misure che proponevano non erano mai di fatto relazionate a quello che dicevano di voler ottenere. A mio avviso, non si è mai seriamente pensato a politiche che portassero a un incremento dei laureati».

Crede che con i fondi europei però il governo possa riuscirci? La soglia del 40% le sembra un obiettivo raggiungibile?

«Bisognerebbe capire la tempistica – adesso siamo attorno al 26-7%. Non credo che si possa realizzare in tempi brevi. Una riforma che secondo me sarebbe fondamentale, al di là del sostegno allo studio, è anche l’avvio di percorsi di tipo terziario più professionalizzanti. Ci sono gli istituti tecnici superiori gestiti dalle regioni, ma accolgono pochi studenti. Credo che anche in questo senso bisognerebbe fare un’opera di orientamento, perché sicuramente ci sono molti studenti che vorrebbero sviluppare delle competenze da spendere subito nel mondo del lavoro, senza dover aspettare 4 o 5 anni».

È stato ipotizzato più volte che l’epidemia avrebbe portato a un calo nelle iscrizioni, il che potrebbe abbassare ulteriormente il tasso di laureati.

«L’impatto del Covid sulla mobilità colpirà probabilmente gli atenei del Nord perché gli studenti del Sud potrebbero essere indotti a restare nel proprio territorio, almeno nel breve periodo. Ma passata la pandemia, i flussi continueranno. Un’incognita è la crisi economica. In un recente studio abbiamo spiegato che, in base ai dati del 2008 in poi, gli studenti negli atenei piemontesi sono diminuiti soprattutto tra chi è residente al Nord, mentre gli studenti provenienti dal Sud hanno continuato a venire numerosi».

Nel piano manca anche un capitolo sulla scuola. Per aumentare i laureati bisogna partire da lì?

«Trovo gravissimo che nel nostro Paese ci sia un 30% di persone tra i 30-34 anni che non ha neanche un titolo di scuola superiore, contro una media europea di circa 16%. Sono dati del 2019. Bisogna assolutamente elevare il livello d’istruzione, non solo portare al 40% i laureati, ma ridurre nettamente la quota di chi ha al massimo la licenza media. È una cosa che fa spavento».

L’articolo è stato modificato nella seguente parte: «Per esempio in Germania non si pagano tasse universitarie, solo una piccola tassa amministrativa e in Francia ammontano a qualche centinaio di euro».

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