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Chiudere le scuole per frenare l’aumento dei contagi? «Ragioniamo per fasce d’età» – L’intervista

17 Ottobre 2020 - 07:33 Angela Gennaro
Alla seconda ondata saremmo dovuti arrivare più preparati, dice Maria Rosaria Gualano, professoressa associata di igiene e medicina preventiva all’Università degli Studi di Torino. «Ora investire nella prevenzione»

Per la prima volta in Italia in un giorno si sfonda la quota dei 10 mila nuovi casi di Coronavirus in un giorno. La Campania chiude le scuole (o meglio, fa didattica a distanza), il premier Giuseppe Conte critica le mosse del governatore Vincenzo De Luca, lui nega. In Germania dicono che non è una buona idea. «Le misure di prevenzione adottate in Italia sono estremamente stringenti per la scuola, la cui ripresa è stata regolamentata come se essa fosse il contesto sociale con il più alto rischio di contagio del virus», si legge in una lettera aperta pubblicata in queste ore da scienziati e scienziate su Scienza in Rete.

«In realtà, allo stato attuale gli studi epidemiologici nazionali e internazionali pubblicati sulle migliori riviste scientifiche mostrano che: i giovani si ammalano meno di Covid-19; al contrario di quanto avviene per l’influenza, il ruolo dei più giovani nella trasmissione di SARS-CoV-2 è limitato; la trasmissione bambino-adulto è meno frequente rispetto a quella tra adulti; la riapertura delle scuole non è stata associata ad un significativo incremento della diffusione del virus».

«Sono una docente universitaria e so bene che la chiusura delle scuole, ricade sulle famiglie e soprattutto sulle donne», dice Maria Rosaria Gualano, professoressa associata di igiene e medicina preventiva all’Università degli Studi di Torino. «D’altra parte, come medico vedo i numeri. E sento la sofferenza dei colleghi all’interno degli ospedali, che si stanno vedendo arrivare addosso una montagna. Infermieri e medici tremano alla sola idea di ricominciare. Del dolore e dell’esaurimento nervoso».

Professoressa Gualano, l’impatto delle scuole non è diretto, perché dipende dai trasporti e dagli assembramenti prima e dopo scuola. Ha senso chiuderle o si doveva fare altro?

«Se dovessimo fare, nostro malgrado, una piramide di sacrificabilità potremmo partire con un ragionamento per fasce d’età: proporre un’alternativa di didattica come quella on line a distanza a chi fa l’università è certo un sacrificio, ma non della stessa portata di quello che si avrebbe chiedendo lo stesso a un bambino o una bambina di 10 anni. Le lezioni on line sono una risorsa. Vanno organizzate bene, in diretta, dando la possibilità agli studenti di intervenire: ma ci si abitua. E forse quella fascia di studenti e studentesse universitari – che poi magari riempiono i treni regionali e gli autobus – è sacrificabile rispetto a quella dei bambini: i più piccoli sono ancora sulla scia dell’entusiasmo di avere ricominciato la scuola e ritrovato i propri compagni. Se fossimo stati catapultati in quello che sta succedendo 20 anni fa, il mondo si sarebbe fermato. Oggi internet ci sta salvando: stiamo riuscendo a gestire molte attività a distanza e il potenziamento dello smart working è fondamentale».

Qual è l’impatto sui trasporti delle scuole primarie, secondarie e dell’università?

«L’impatto sui trasporti dei bambini è ovviamente inferiore: è uno spostamento protetto, accompagnato e che in molti casi si farebbe comunque perché i genitori vanno al lavoro. Assai diverso è l’impatto di chi fa il pendolare e in alcuni casi deve percorrere anche 80 chilometri per raggiungere l’università – a Torino come a Roma – in condizioni di viaggio che sono sotto gli occhi di tutti, dove conservare il distanziamento è eufemisticamente impossibile. Bisogna andare a fare un’azione collettiva per individuare la piramide di sacrificabilità».

In che senso?

«Tutto è un sacrificio, a qualsiasi livello. Ci sono attività di base che non possiamo toccare: le pulizie in un ospedale vanno fatte in presenza, non possiamo tenere a casa chi le fa – per fare un esempio. Bisogna cominciare a sacrificare tutto il resto. Non siamo in un momento di lockdown totale: ragazzi e ragazze possono uscire per altre ragioni. Sacrifichiamo la didattica, ma c’è un altro tasto su cui dovremmo battere, soprattutto a livello istituzionale: l’educazione sanitaria. Bisogna dire chiaramente ai più giovani che in questo momento non possono scambiarsi cellulari, sigarette, birra quando escono a fare l’aperitivo. È un momento di responsabilizzazione di tutti: stiamo andando incontro all’inverno, il periodo in cui le malattie infettive si trasmettono più facilmente perché passiamo più tempo al chiuso. Quando era cominciata la prima ondata andavamo incontro all’estate. E poi in generale dobbiamo ridisegnare la vita in tutti i suoi aspetti, limitare tutte le occasioni di movimento e di incontro di più persone possibile. È un virus che cerca di sopravvivere, si nutre di noi, punta a diffondersi. Qui a Roma sentivo consigliare: andate a piedi dove potete. Non è una sciocchezza: dobbiamo usare il buon senso e riconvertire i nostri spostamenti laddove possibile. Se invece che prendere la metropolitana per due fermate, posso fare una passeggiata, è una buona idea».

Siamo arrivati alla seconda ondata impreparati?

«Bisognava intervenire sui trasporti, aumentare la flotta. Ma si sono frapposti problemi strutturali, di fondi a disposizione e di burocrazia. L’app Immuni è stata scaricata poco, né aiuta questo clima di “negazionismo” e di messa in discussione di ogni aspetto».

E su tamponi e tracciamento?

«Si poteva investire di più. C’è poi comunque, e di questo dobbiamo tenere conto, un limite fisico e organizzativo nella macchina per esempio del tracciamento, della quantità di tamponi a disposizione e dei test che si riescono materialmente a fare, anche per le persone che abbiamo a disposizione in grado di effettuarli. Questo paese ha sempre avuto un grande problema: la prevenzione. La percentuale del fondo sanitario nazionale dedicata alla prevenzione è sempre stata di meno del 5%: bassissima. Pensiamo a gestire le emergenze e siamo anche bravi in questo, con strutture di emergenza come la Protezione Civile che sono tra le più forti al mondo. Pecchiamo di prevenzione».

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