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Deliveroo, i giudici di Bologna bocciano Frank, l’algoritmo che discriminava i malati e chi scioperava

02 Gennaio 2021 - 14:32 Giada Ferraglioni
Il sistema non è più in vigore da novembre 2020, ma la sentenza dei giudici è utile a comprendere le discriminazione attuate dalle app

Ora lo dicono anche i giudici: l’algoritmo Frank, utilizzato da Deliveroo per valutare i rider fino a novembre 2020, è «discriminatorio». Una sentenza del Tribunale di Bologna ha definito così il sistema di ranking del colosso britannico di food delivery, che penalizzava sia chi si assentava dal turno per scioperare, sia chi non poteva lavorare perché malato. Per la prima volta in Europa, i criteri organizzativi delle piattaforme digitali vengono messi in discussione non solo da lavoratori e rappresentanze, ma anche dalla stessa magistratura.

È stato dunque accolto il ricorso presentato congiuntamente dai sindacati Nidil, Filcams e Filt (tutti nella confederazione Cgil) un anno fa. Per le rappresentanze si tratta di «una svolta epocale nella conquista dei diritti e delle libertà sindacali nel mondo digitale». «Il ranking reputazionale – ha dichiarato Tania Scacchetti, segretaria confederale Cgil, a Il Fatto Quotidiano – declassa allo stesso modo, senza alcuna distinzione, sia chi si assenta per futili motivi, sia chi si astiene dalla consegna per malattia o per esercitare il diritto di sciopero».

«Il provvedimento – ha aggiunto- costituisce un fondamentale passo avanti nel percorso che ci vede da sempre impegnati nella tutela del lavoro, dei lavoratori dalla nuova economica digitale». Nel corso del 2020 sono stati molti gli elementi che hanno in parte cambiato, almeno in Italia, il funzionamento delle piattaforme: dalle inchieste penali, come le indagini sul caporalato digitale, fino al riconoscimento da parte di Just Eat dei lavoratori come dipendenti.

Cos’era Frank

Da tempo i rider lamentavano, anche attraverso scioperi e proteste, l’ingiustizia legata al sistema di valutazione delle prestazioni di Deliveroo. Frank era un algoritmo auto-apprendente, volto a elaborare i ranking reputazionali sui ciclofattorini. Il sistema di valutazione si basava su due criteri: l’affidabilità e la partecipazione. In altre parole, chi iniziava il suo turno doveva loggarsi nell’applicazione entro 15 minuti e indicare la propria area geografica di competenza. Chi prendeva in carico più ordini e li consegnava più velocemente saliva in classifica. Più in alto si andava, più si aveva precedenza sugli ordini – e quindi sui guadagni. Chi non si loggava, invece, perdeva punti, senza aver modo di giustificare l’assenza.

Come spiegava la Cgil, questi ranking determinano di fatto «le future opportunità di lavoro e le priorità di prenotazione per le consegne», emarginando automaticamente, «fino ad estrometterli dal ciclo produttivo», coloro che non riescono a essere disponibili a prendere in carico gli ordini. In altre parole, il rider che non si adeguava alla logica dell’algoritmo – anche solo perché assente per malattia – veniva gradualmente escluso dalle possibilità di impiego, «arrivando in alcuni casi a essere deloggato dal sistema».

Era «discriminatorio» e «negava i diritti» dei lavoratori

Da novembre 2020 Deliveroo ha abolito i turni e inserito il free logging. La sentenza dei giudici di Bologna arriva dunque dopo la svolta del colosso, ma serve comunque a notare quanto un sistema come l’algoritmo fosse lesivo per il diritto di malattia e di sciopero. «Appare provato – scrivono i magistrati – che l’adesione a una iniziativa di astensione collettiva dal lavoro è idonea a pregiudicare le statistiche del rider».

In merito alla non possibilità di giustificare l’assenza, i giudici aggiungono: «Non può darsi rilievo, come invece vorrebbe la società resistente, al fatto che il rider che sia malato o voglia astenersi dal lavoro pur avendo prenotato una sessione possa loggarsi e non consegnare neanche un ordine, in quanto per loggarsi il rider deve necessariamente recarsi nella zona di lavoro, in quanto la app ne rileva la posizione geografica».

Immagine di copertina: EPA/STEPHANIE LECOCQ

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