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La piccola rivincita dei dittatori: da Erdogan a Maduro, tutti preoccupati per la democrazia in America

Persino il governo venezuelano ha espresso «preoccupazione per gli atti di violenza» a Washington, condannando la «polarizzazione politica» nel Paese. Breve guida alla geopolitica del compiacimento

Non è difficile immaginare come le fotografie dei patrioti muniti di bandiere QAnon e dello sciamano impellicciato che camminano per il Campidoglio vuoto siano state accolte nelle cancellerie degli alleati storici degli Stati Uniti. Angela Merkel forse ha parlato per tutti – o quasi, visti gli ammiratori che Trump ha attratto negli anni, anche in Italia – quando ha accompagnato il suo disappunto per le scene da Attila Flaggello di Dio a un rimprovero al presidente per aver «preparato l’atmosfera» per l’invasione dei barbari. Difficile immaginare una scena simile a Berlino, dove la scorsa estate il Reichstag è stato preso d’assalto da estremisti di destra, ma non certo perché fomentati dalla Cancelliera. Ma sono scene inimmaginabili anche in Paesi dove le istituzioni politiche sono ben più deboli degli Usa o in quelli autoritari dove «l’eterna vigilanza», anziché essere «il prezzo della libertà», ne è il cappio: ed è forse questo il danno reputazionale più grave.

Washington DC come Hong Kong e l’Euromaidan

Il primo regalo fatto dai “patrioti” di Trump ai leader autoritari di mezzo mondo è stato quello di relativizzare il dissenso interno e quindi la propensione a reprimerlo, anche brutalmente. La Cina di Xi Jinping non ha perso un attimo: mentre i media di Stato riproponevano le foto dei “golpisti” che scalavano le pareti del Campidoglio, un portavoce del ministro degli Esteri cinese li metteva sullo stesso piano dei dissidenti di Hong Kong – dove recentemente sono stati arrestati una cinquantina di attivisti, tra cui un americano, suscitando condanne e la minaccia di nuove sanzioni da parte degli Stati Uniti – tralasciando il fatto che uno degli obiettivi di Joshua Wong e compagni fosse quello di avere quantomeno la possibilità di perderle le elezioni.

«I media mainstream negli Stati Uniti hanno condannato all’unanimità quanto accaduto a Washington, usando parole come “ressa”, “estremisti”, “criminali” ecc. Quali parole usavano per descrivere i manifestanti violenti a Hong Kong nel 2019? Lo avevano chiamato “uno spettacolo bellissimo”…». Questa l’amarezza cinese, a cui si aggiunge la bile russa. Mentre Konstantin Kosachyov, politico russo e presidente del consiglio federale sugli affari esteri, twittava che «la democrazia americana zoppica sui entrambi i piedi», Dmitry Polyanskiy, vice ambasciatore russo alle Nazioni Unite, paragonava la bolgia al Campidoglio all’Euromaidan che hanno rovesciato il presidente ucraino filo-russo, Viktor Yanukovich, nel 2014.

Da Maduro a Erdogan

Sono soltanto alcuni esempi, e sono soltanto parole, che servono però a insinuare il dubbio che le istituzioni democratiche siano in genere troppo deboli per reggere il 21esimo secolo. Ma anche per sgonfiare le pretese di superiorità morale dell’Occidente e quindi le critiche rivolte dagli Stati Uniti ad altri Paesi per la loro condotta poco democratica. A partire dai vicini di casa: in Venezuela da 24 ore l’account twitter di Nicolas Maduro pubblica a raffica foto e filmati del “golpe nordamericano” alternate a rappresentazioni idilliache del lìder vestito di bianco che presenzia a un assemblea ordinata e onora le virtù della democrazia. In un comunicato stampa il governo venezuelano ha addirittura espresso «preoccupazione per gli atti di violenza» a Washington, condannando la «polarizzazione politica» nel Paese.

La Turchia di Erdogan, che in passato è sopravvissuto a un vero tentativo di colpo di Stato con tanto di carri armati, vedendo l’alleato in pericolo si è preoccupato e tramite il ministero degli Esteri ha invitato gli americani alla calma e ha aggiunto di star monitorando «gli sviluppi» preoccupanti nel Paese. Anzi, il silenzio del leader turco è stato interpretato dal Financial Times come un segno di una progressiva presa di distanza da Trump visto il vuoto che gli si sta spalancando davanti. Ma il premio per i dietrofront tra ex deve andare al premier ceco Andrej Babis, che ha rimosso dal suo profilo Twitter un’immagine ispirata ai cappelli Make America Great Again di Trump. E poi c’è anche chi, come l’Iran, mette a segno il colpo senza tanti giri di parole. «Quello che è successo in America ha mostrato quanto sia un fallimento la democrazia occidentale. Un uomo populista ha danneggiato la reputazione del suo paese». Hassan Rouhani, gennaio 2021.

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