Gli Stati Uniti dopo gli assalti a Capitol Hill: «Per unire il Paese, Biden deve superare la politica identitaria e dialogare coi repubblicani» – L’intervista

Secondo l’ex vicepresidente del Carnegie Endowment for International Peace, Thomas Carothers, il presidente eletto dovrà affrontare l’emergenza Covid e provare a cancellare le divisioni dell’era Trump

Il giorno dopo l’irruzione al Campidoglio Washington si porta dietro gli strascichi di una campagna elettorale cominciata male e finita peggio. «E se Trump non concedesse la vittoria?», si chiedeva già a fine settembre il quotidiano americano The Atlantic, scrivendo di un’elezione che avrebbe potuto spezzare in due l’America. Poco prima dell’irruzione dei suoi sostenitori al Campidoglio, Trump aveva alimentato ancora una volta la rabbia dei suoi supporter: «L’elezione ci è stata rubata, non ci arrenderemo», aveva arringato li aveva arringati dal palco.


E questo, mentre perfino il suo fedelissimo Mike Pence, appena prima dell’inizio del procedimento di ratifica della vittoria di Biden al Congresso, aveva piegato la testa al sistema democratico, a quei pesi e contrappesi della politica americana che garantiscono la regolarità del processo elettorale. «Non posso fare niente, non ho autorità sull’esito del voto», aveva ribadito il vicepresidente a Donald Trump. Ma in poche ore tutto si è spezzato. O forse lo era già. 


Per molti anni, ancora prima dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, l’appartenenza politica degli elettori americani si è rafforzata attraverso linee identitarie. «L’altra parte non è più solo l’opposizione, ma il nemico; e la politica non è più trovare compromessi che possano affrontare problemi comuni, ma vincere una guerra per la propria fazione», scrive su Foreign Affairs Isabel Sawhill, senior Fellow del Brookings Institution.

I supporter di Trump

«C’è un gruppo di persone appartenente a movimenti di estrema destra in questo Paese che rifiuta di accettare il sistema elettorale. Lo ritiene corrotto e ha trovato nel presidente Trump un alleato», dice a Open l’ex vicepresidente del Carnegie Endowment for International Peace, Thomas Carothers, esperto di processi di democratizzazione. «Per questi gruppi – aggiunge – Trump ha sempre avuto un certo appeal, hanno sempre potuto contare su di lui nel loro tentativo di rigettare l’establishment». Nella folta schiera di più o meno dichiarati supporter di Trump che il 6 gennaio ha deciso di fare irruzione a Capitol Hill c’erano sostenitori della teoria di QAnon, persone vicine a gruppi neonazisti e suprematisti bianchi.

Tutti gruppi a cui Trump in questi anni alla presidenza non ha mai negato il suo sostegno. Ma oltre al variegato universo Maga, c’è tutta una schiera di elettori e sostenitori politici che con toni e modi meno folcloristici sostengono le azioni di Capitol Hill. Secondo un sondaggio condotto da YouGov appena dopo l’assedio del Campidoglio, tra i repubblicani solo il 27% crede che gli eventi di ieri siano una minaccia per la democrazia. Il 45% crede invece che quanto successo a Washington sia in qualche modo, non solo legittimo, ma anche giustificato dal risultato non veritiero dell’elezione.

«I repubblicani continuano a ostentare un approccio di rigetto della legittimità del partito democratico come forza politica», dice Carothers. «Per Biden una delle sfide maggiori sarà proprio quella di trovare una forma produttiva di cooperazione con il GOP». Il 20 gennaio Biden si insedierà ufficialmente alla Casa Bianca e davanti avrà un Paese profondamente diviso e polarizzato dagli ultimi eventi: «C’è un gruppo numeroso di americani che continuerà a rigettare il risultato dell’elezione».

La popolarità di Trump

Biden ha ottenuto 306 grandi elettori dei 270 necessari per la vittoria e ieri il Congresso ha portato a termine il suo lavoro certificando, con la ripresa dei lavori dopo l’assedio, la vittoria del neo presidente. Ma in questi quattro anni la popolarità di Trump è cresciuta. 12 milioni di persone in più del 2016 hanno votato per il Tycoon, facendolo diventare, con 74 milioni di voti, il secondo candidato più votato di sempre. «Biden ha bisogno di unire il Paese. E sicuramente la prima cosa che dovrà fare è migliorare la risposta del Paese alla pandemia da Coronavirus. La salute pubblica preoccupa tutti ed è qualcosa attorno al quale può trovare un consenso univoco, unendo il Paese in uno sforzo comune».

Ma oltre all’azione, Biden continuerà ad aver bisogno di una dialettica efficace. Nel 2004 Obama era diventato, da semi sconosciuto, il candidato principale alla presidenza del partito democratico grazie a una comunicazione chiara e convincente. Lo stesso ha fatto Trump. La sua retorica populista gli ha permesso di battere Hillary Clinton nel 2016 e di rafforzare negli ultimi 4 anni una solida base elettorale. «Biden non può abbandonare una retorica unificante e di moderazione. È stato bravo a non rispondere alle provocazioni di Trump, ma ha bisogno di una dialettica che sia inclusiva e che crei consenso attorno alla sua agenda politica». 

Ingiustizia, razzismo e BLM

Tra le prime cose che Biden dovrà fare ci sarà anche quella di identificare le responsabilità della polizia durante l’irruzione a Capitol Hill. Quello che da subito è apparso evidente è «la disparità di trattamento con le persone che nei mesi scorsi hanno partecipate alle proteste» seguite alla morte di George Floyd. L’ingiustizia e la discriminazione razziale sono già al centro di una profonda discussione a livello nazionale e «questi eventi non hanno fatto altro che amplificare e intensificare questo dibattito», spiega Carothers che aggiunge come per Biden sarà ancora più importante rompere con la politica identitaria: «L’appartenenza politica è diventata il riflesso di una identità sociale in cui io sono definito da chi voto. E questa visione ora è troppo forte. Va superata».

Continua a leggere su Open

Leggi anche: