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La realtà oltre Sanpa. Dai giovanissimi agli over 60 drogati di metadone: l’identikit dei nuovi tossicodipendenti

14 Gennaio 2021 - 07:35 Angela Gennaro
Viaggio tra le comunità e i metodi terapeutici più attuali attraverso il racconto di Paolo Negri, ex ospite di San Patrignano e oggi educatore

Il fine giustifica i mezzi. O no? Fino a dove è lecito arrivare? Sono interrogativi esistenziali quelli che solleva la visione di SanPa, la docu-serie di Netflix che – al di là delle singole opinioni – ha il merito di aver riaperto un dibattito ben sopito nel nostro Paese: quello sulle tossicodipendenze e sull’approccio a un problema che la collettività benpensante ha spesso la tentazione di nascondere sotto al tappeto. «Una società spaventata e incapace di affrontare la diffusione di eroina negli anni ’80 sembrava aver dato alle nascenti comunità un mandato amplissimo: tutto, anche la violenza, sembrava per qualcuno giustificabile di fronte al mostro della “droga”», spiegava qualche giorno fa Riccardo De Facci, presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca), la principale rete di cura delle dipendenze del terzo settore con circa 300 realtà sparse in tutta Italia.

Non già al di là del bene e del male, ma certamente al di là dei preconcetti, delle tifoserie, della divisione manichea tra buoni e cattivi: così è stata Sanpa per chi l’ha vissuta. Un posto che ha accolto i tossicodipendenti quando nessuno li voleva vedere, perché sporchi-brutti-e-cattivi. Un posto, come ricostruiscono la serie e le cronache dell’epoca, segnato poi da fatti gravissimi: processi, catene, violenze, morti.

L’ipoteca del passato

Netflix | Paolo Negri in una scena della serie ‘SanPa: Luci e Tenebre di San Patrignano’, docu-serie originale italiana Netflix.

Paolo Negri è un ex ospite di San Patrignano. Anche lui voce narrante nel documentario di Netflix, in prima linea contro l’irrisolto rimasto sospeso nella storia della comunità fondata dal riminese Vincenzo Muccioli. «Era un po’ lo stesso paradigma comportamentista delle case di correzione: si rinchiude la gente e chi se ne frega di come vengono trattati. Ma poi ci siamo evoluti tutti, proprio perché qualcuno ha ammesso che il metodo è sbagliato», dice a Open.

La battaglia che Negri porta avanti dal ’94 insieme a Sebastiano Gendel Berla (fratello di Natalia, morta a San Patrignano il 13 marzo del 1989) e a Giuseppe Maranzano, figlio di Roberto, l’ex agente di commercio palermitano massacrato nella macelleria della comunità nello stesso anno e ritrovato in una discarica in Campania, avvolto in una coperta con il marchio di San Patrignano, è proprio questa: «Chiediamo che si faccia una riflessione. Magari anche giustificando gli eccessi di Sanpa: va bene, non si sapeva come fare, si è provato in un modo, abbiamo fatto un grosso errore, questo modo non va più bene. Sarebbe la strada per spiegare formalmente a queste persone che hanno perso qualcuno come può essere successo, in un luogo di cura». Se San Patrignano «continua a imporsi come modello e si lascia indietro queste storie irrisolte, il mondo delle dipendenze è destinato a rimanere spaccato. E non possiamo permettercelo».

I metodi

No, nemmeno nella cura delle dipendenze il fine giustifica i mezzi, «ancor più quando i mezzi utilizzati ledono i diritti basilari della persona e sono addirittura di tipo gravemente coercitivo e violento», dice De Facci dal Cnca. «Sono i bisogni reali dei tossicodipendenti a dover guidare, non la vanità degli operatori», racconta ancora a Open Paolo Negri. Fatti, non “santificazioni”. Perché certe figure – Muccioli non era il solo ad andare sempre in tv, lo faceva anche don Antonio Mazzi, il 91enne fondatore della Comunità Exodus – «andavano bene quando erano eroiche, perché era “sporco” occuparsi dei drogati», aggiunge Negri.

Il punto è che altri approcci erano invece possibili. Quella raccontata nella serie tv è «solo una delle storie delle moltissime organizzazioni che oggi, in Italia, sono impegnate sul fronte dipendenze», prosegue De Facci. E «sono almeno 16 mila le persone accolte ogni anno nelle quasi 500 comunità e strutture di accoglienza sparse nel paese e circa 200 mila le persone prese in carico dai servizi territoriali pubblici e del terzo settore».

«Per contrastare certi metodi autoritari e punitivi di alcune comunità tipo SanPa e all’idea che stava avanzando sul dibattito che portò poi alla legge sulla droga, le piccole comunità di accoglienza fecero rete sotto il cartello Educare non punire costituendosi poi in un coordinamento nazionale», racconta Laura Carletti. Oggi lavora a Torino per Animazione Sociale, parte del progetto culturale del Gruppo Abele: nel 1982 lei stessa insieme al marito e ai figli, aveva iniziato ad accogliere in una cascina sperduta nei boschi di Langa, in Piemonte, ragazzi e ragazze dipendenti da eroina. «Alcuni fuggiti da SanPa con le loro storie allucinanti… Noi abbiamo sempre scelto di essere altro: ho imparato il linguaggio della strada, visto cosa vuol dire stare in rota, togliersi la scimmia, combattere la voglia di roba… Ma era bello vedere il cambiamento nei loro occhi e sorrisi, liberi di scegliere», scrive in un post su Facebook.

Dal problema alla soluzione

Unsplash / Hannie Stander

Paolo Negri è stato un tossicodipendente della generazione di eroinomani della fine degli anni Settanta. È arrivato a San Patrignano nel 1989 e ne è uscito nel 1992. Un arco di tempo che per una serie di casualità «comprende quello che viene descritto da più parti come l’impazzimento di Muccioli – l’inizio della megalomania, il “processo delle catene” e soprattutto l’idea della nuova legge Iervolino-Vassalli». Due anni dopo, racconta, pur non avendo mai pensato che sarebbe andata così, ha cominciato a fare questo lavoro: oggi è un educatore che opera nelle dipendenze. «Quando parliamo del problema droga, per almeno 20 anni, parliamo esclusivamente di eroina: a San Patrignano eravamo al 95% eroinomani».

Tra il ’93 e il ’94 don Gino Rigoldi (dal 1972 Cappellano dell’Istituto penale per minorenni “Beccaria”, uno che «qui a Milano è tra quei preti molto attivi nel sociale e nelle dipendenze e che avevo conosciuto tanti anni prima») chiama Paolo per proporgli un lavoro: sta mettendo in piedi un gruppo per creare strategie per il reinserimento lavorativo dei tossicodipendenti. È il mestiere che Paolo farà per 15 anni: «statisticamente la parte più difficile di un percorso di disintossicazione: molte persone crollavano dopo 2-3 mesi dall’uscita da una comunità proprio perché incontravano difficoltà a trovare lavoro ed essere riaccettati nella società».

Nel frattempo l’approccio alla problematica cambia, «si stabilisce che la tossicodipendenza è una malattia, si comincia a progettare quella che si chiama “la riduzione del danno” con i farmaci avversativi come il metadone». Si esce, insomma, dalla visione del tossico come un problema sociale, una scheggia impazzita, un elemento di disordine. E dall’idea di punire, reprimere, carcerare.

«Si comincia a parlare di curare», racconta Paolo Negri. Una rivoluzione teoricamente molto positiva cui la malavita organizzata risponde però con «una strategia di marketing eccezionale»: «Cominciando a venir meno grazie al metadone la linfa degli eroinomani disposti a tutto perché bisognosi quotidianamente di alte somme di roba (50, 100, 150 mila lire al giorno), vengono immesse sul mercato a basso costo sostanze che erano carissime».

La prima è la cocaina, che negli anni ’90 arriva nelle strade e nelle piazze. «Il tossicodipendente, già dopo pochi anni di consumo, si sente marcio, vede il corpo che cambia, i denti che si cominciano a corrodere, malattie di tutti i tipi». Mentre per il cocainomane è diverso: «Possono passare anni senza che nessuno si accorga di nulla. Lascia spesso disastri economici, ma le famiglie se ne accorgono quando magari sono state già vendute case o sono stati fatti debiti con la malavita».

Così cambia anche il lavoro degli operatori: l’occhio che osserva e le strategie di contrasto. «Nelle comunità per eroinomani un forte strumento era la psicologia di gruppo. I cocainomani invece sono poco disponibili a condividere il loro problema, hanno una visione più individualista. Ho conosciuto un avvocato che ha fatto 20 anni di carriera stupenda prima che tutti intorno a lui si accorgessero che si stava distruggendo con la cocaina».

Come «Breaking Bad»

Una scena di Breaking Bad

Nel tempo le nuove politiche – seguendo la logica della dipendenza come malattia – hanno cominciato a vedere insieme alcolismo, tossicodipendenza, ludopatia, dipendenze da sesso, dating, internet. «Anche perché – Fabio Cantelli lo dice – la droga si è integrata nel sistema», prosegue Paolo Negri. «Non è più un problema degli ultimi, degli sfigati, dei falliti. Abbiamo persone che consumano e che se riescono a guadagnare bene vanno avanti anche mantenendo ruoli lavorativi dirigenziali».

E all’educatore non resta che la formazione continua (in un mondo di tagli alla sanità che coinvolge prima di tutto il sostegno psicologico a queste figure). «Tutto cambia. In questi giorni ho a che fare con un ragazzo molto giovane che non ha mai comprato una droga in piazza ma che è esperto del deep web e si produce le droghe da solo in casa con un piccolo laboratorio chimico». Come succede nella serie tv Breaking Bad, insomma. «Quasi si commuove quando racconta di come riusciva a ricavare una droga anche dai detersivi. E io, che ho i miei anni e ne ho viste tante, mi trovo a dover imparare una cosa nuova, con davanti un ragazzo che mi parla di sofferenze che non ho mai incontrato prima. Sulle soluzioni ci dobbiamo scervellare un po’ tutti. Né conosco bene gli effetti», dice Negri.

Chi si droga oggi

Paolo ora lavora in una pronta accoglienza a Milano, un vero e proprio snodo: ci arrivano persone da tutti i SerT (Servizi per le Tossicodipendenze, ndr) e Noa (Nucleo Operativo Alcologia, quelli dell’alcolismo, ndr) della Lombardia. «Persone che a nostra volta smistiamo nelle strutture terapeutiche della regione». Da questo “osservatorio” è possibile ricostruire l’identikit di chi si droga oggi: giovanissimi, 40-50enni cocainomani che non arrivano a rivolgersi alle comunità o che continuano a ricadere, e persone sui 60-70 anni. Senza dimenticare, ma questa è un’altra storia, «quello che è il fenomeno dell’anno: un incremento delle donne over 50 che col lockdown si sono rovinate con l’alcol».

Parlando di sostanze, «abbiamo una nuova ondata incredibile, quasi un revival degli anni ’70, di giovani eroinomani che non si rivolgono ai SerT e che vengono addirittura coccolati da anziani tossici che procurano loro il metadone», dice Paolo Negri. Un’immagine ‘plasticamente’ resa dal boschetto di Rogoredo a Milano, diventato nell’ultimo decennio una delle maggiori piazze di spaccio europee. «E siamo di nuovo qui a chiederci come fronteggiare questo problema».

E poi ci sono gli over 60. «Persone arrivate a un’età in cui di solito si andava in pensione. Hanno passato la vita a prendere metadone e non sanno immaginarsi disintossicati». Un problema sociale serio: si tratta di persone che sono sole, che spesso non hanno una famiglia, a volte neppure una casa. «Non sono soggetti da mandare in una comunità educativa visto che il pedagogico va bene quando una persona ha un futuro davanti: qui si tratta di un accompagnamento alla vecchiaia», dice ancora Paolo Negri. «Fra un po’ dovremo anche immaginare dei servizi residenziali per queste persone, che hanno delle invalidità, hanno bruciato buona parte del cervello, non sono più neanche quasi in grado di essere pericolosi socialmente. Cosa ne fa la nostra società?»

ANSA/Ufficio Stampa di San Patrignano – Mauro Galligani | Vincenzo Muccioli, fondatore di San Patrignano, in una foto d’archivio

Le risposte terapeutiche delle comunità di oggi non possono che essere variegate: «C’è quella solo femminile, quella mista, quella che ha anche lo psichiatra, quella che punta più sul lavoro o sul counseling psicologico. La scelta si fa in base alle specificità della persona e alle prospettive», conclude l’educatore. Resta irrisolto, dal sistema, il problema psichiatrico spesso cronico che le droghe eccitanti (Mdma, cocaina, anfetamine) si portano appresso. «Siamo in un Paese in cui la psichiatria è in crisi e non c’è dialogo tra mondo delle dipendenze e dimensione psichiatrica».

Risultato? L’inefficienza con i casi psichiatrici, «ancor più con quelli che hanno una comorbilità o, come la chiamiamo noi, “doppia diagnosi” anche di uso di sostanze». Il sistema «tende a lasciare la patata bollente ai SerT, che a volte arrivano a “dimettere” queste persone perché hanno lunghe liste d’attesa. Restano in giro persone piuttosto danneggiate, che non vuole prendere nessuno». Un copione diverso sì, ma troppo simile a quello di 40 anni fa.

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