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Anticorpi monoclonali sì, ma con cautela. Per Eli Lilly e Regeneron l’efficacia è ancora limitata

09 Febbraio 2021 - 13:37 Juanne Pili
Sui farmaci si nutrono grandi speranze, ma è presto per renderli uno standard di cura. Ecco perché

Il 4 febbraio l’AIFA (Agenzia italiana del farmaco) ha pubblicato una nota nella quale si evincono evidenze non sufficienti di efficacia per quanto riguarda i farmaci considerati più promettenti basati sugli anticorpi monoclonali. Eli Lilly e Regeneron non sembrano presentare al momento sufficienti evidenze di una loro significativa efficacia, ragione per cui sono emerse critiche da parte di diversi osservatori sull’estremo ottimismo con cui questi trattamenti sono stati presentati dai media e da diversi addetti ai lavori. Ci riferiamo anche all’enfasi data recentemente dal ministro della Salute Roberto Speranza al via libera dell’Agenzia, col decreto del 6 febbraio che ne autorizza la distribuzione. La nota di AIFA non sembra quindi essere stata debitamente contestualizzata dai media, esaltando solo le parti apparentemente incoraggianti.

«Vorrei chiarire un’ultima cosa, prima di chiudere – continua la giornalista e divulgatrice Roberta Villa in un recente post su Facebook – questa assurda sceneggiata sui monoclonali, che in pratica, come negli USA, non si potranno usare. Spero anche che il nuovo governo abbia ancora la possibilità di fermare la folle iniziativa di regalare a un’azienda, senza basi scientifiche, una cifra pari a UN QUARTO di tutto il budget per la ricerca biomedica in Italia (come se non esistessero altre malattie, dal cancro alle malattie genetiche a quelle cardiovascolari). Per una “sperimentazione” che ha bypassato ogni metodo di bando e selezione, scavalcando mille progetti senza dubbio più meritevoli, senza peer review ma per un’esplicita, e rivendicata con orgoglio, operazione di lobby. Ricordo le levate di scudi quando capitò con Vescovi, per il progetto Human Technopole, per non parlare di stamina o di bella, dove non c’erano prove di efficacia. Qui invece le prove ci sono, sono pubblicate, e sono di NON efficacia».  

L’AIFA si rifà a un’analisi della Commissione tecnico scientifica (CTS), che su richiesta del ministero della Salute ha acquisito una istruttoria, dove si tiene conto dei più recenti studi sugli anticorpi monoclonali. Rispetto alle buone aspettative, i dati attualmente emersi appaiono deludenti. Eppure l’idea di base dei monoclonali non è affatto campata per aria. Si tratta di selezionare e sviluppare dal plasma dei pazienti guariti o convalescenti, gli anticorpi che mostrano maggiori capacità di riconoscere e neutralizzare il nuovo Coronavirus. Il problema maggiore potrebbe essere quello dello scarso tempo a disposizione della ricerca, e delle difficoltà che le circostanze pongono nel saper accertare gli effettivi benefici dei trattamenti, su determinate tipologie di pazienti a rischio.

Secondo l’Agenzia del farmaco Eli Lilly e Regeneron presentano solo evidenze preliminari

Non sembrano emergere novità importanti sull’efficacia dei monoclonali bamlanivimab ed etesevimab di Eli Lilly. Sul farmaco si nutrono grandi speranze. Alcune testate polemizzarono nel dicembre scorso sul fatto che lasciassimo fuggire il farmaco all’estero. Tuttavia avevamo visto in un precedente articolo, che l’AIFA attendeva solo di avere maggiori dati.

Per quanto l’Azienda anticipi riscontri riguardo a una presunta riduzione di mortalità pari al 70% di entrambi gli anticorpi in combinazione, i dati in merito non sono stati presentati nel corso dell’audizione alla CTS. Il dosaggio a 700 mg di bamlanivimab sembra mostrare evidenze di efficacia nei pazienti con sintomi lievi. È difficile però dimostrare che il mancato peggioramento dei sintomi si colleghi causalmente alla somministrazione, anche quando tali riscontri riguardano pazienti ad alto rischio.

«L’azienda concorda con l’osservazione che la correlazione di tali esiti con la riduzione della carica virale non appare attualmente dimostrata», conclude AIFA.

I monoclonali imdevimab e casirivimab di Regeneron non sembrano presentare evidenze migliori. Per quanto l’Azienda riesca a presentare alcuni dati aggiuntivi, parliamo sempre di pazienti con sintomi moderati. Non ci sono abbastanza evidenze, secondo AIFA, nei soggetti che hanno sviluppato sintomi più gravi. Non di meno, emergerebbero maggiori indizi di una potenziale efficacia:

«I dati riguardano due diversi dosaggi del cocktail e dimostrano in entrambi i casi che il trattamento è più efficace nei soggetti sieronegativi, con alta carica virale e con almeno un fattore di rischio, e che il trattamento si traduce, nella popolazione generale, nella riduzione assoluta del tasso di visite mediche al giorno 29 di circa il 3% (6/93 nel gruppo placebo rispetto al 6/182 nel gruppo trattato). Dai dati presentati in seduta, anche in questo caso la percentuale di protezione risulta incrementata nei soggetti a rischio», continua l’Agenzia del farmaco.

Tali dati sono comunque considerati «immaturi». L’AIFA riconosce i monoclonali di Regeneron come una «opzione terapeutica ai soggetti non ospedalizzati», che risultano comunque ad alto rischio di sviluppare forme gravi di Covid-19, trovandosi in una categoria di pazienti per i quali «non è disponibile alcun trattamento standard di provata efficacia».

I monoclonali non sono ancora uno standard di cura

Il CTS ha avuto a disposizione in particolare gli ultimi due studi più recenti sui monoclonali di entrambe le case farmaceutiche: il primo pubblicato da JAMA il 21 gennaio su bamlanivimab  di Eli Lilly; il secondo del New England Journal of Medicine su entrambi i monoclonali di Regeneron in combinazione.

Purtroppo i ricercatori non riescono a fornire dati significativi. In generale Eli Lilly e Regeneron presentano sì evidenze di efficacia, ma ancora preliminari. La ricerca ovviamente deve andare avanti. Per queste ragioni AIFA auspicava che i monoclonali potessero essere resi disponibili «con procedura straordinaria», in attesa di recepire maggiori evidenze. La somministrazione quindi, può essere fatta su pazienti a rischio con determinate caratteristiche. Organizzazione delle terapie e modalità di prescrizione potranno inoltre variare a seconda delle diverse Regioni:

«La popolazione candidabile al trattamento dovrà essere rappresentata unicamente da soggetti di età >12 anni, positivi per SARS-CoV-2, non ospedalizzati per COVID-19, non in ossigenoterapia per COVID-19, con sintomi di grado lieve-moderato di recente insorgenza (e comunque da non oltre 10 giorni) e presenza di almeno uno dei fattori di rischio (o almeno 2 se uno di essi è l’età >65 anni)», continua AIFA.

In conclusione, tali trattamenti al momento «non possono essere considerati uno standard di cura». Per queste ragioni emergono sempre più voci critiche, che preferirebbero concentrare maggiori risorse sulla produzione e distribuzione dei vaccini anti-Covid.

Foto di copertina: ANSA/FABIO CAMPANA | Una veduta del palazzo dove ha sede l’Aifa, Agenzia italiana del farmaco, a via del Tritone, Roma, 5 giugno 2014.

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