Scoperti 4 nuovi sintomi della Covid-19? Facciamo attenzione a cosa leggiamo!

Cosa dice (veramente) lo studio dell’Imperial College, al centro sui mezzi di informazione di conclusioni fuorvianti

Sul sito dell’Imperial College di Londra è apparso nella sezione «salute» un aggiornamento che fa riferimento a uno studio in corso, volto a monitorare i sintomi associati ai casi accertati di nuovo Coronavirus su un campione arrivato a un milione di persone. Il progetto è quello del Real-time Assessment of Community Transmission (REACT) Study.

I risultati preliminari sono consultabili in un preprint pubblicato dall’Istituto e aggiornato il 10 febbraio 2021. Precisiamo quindi che i dati di cui trattiamo devono ancora essere sottoposti a revisione da parte di altri esperti. Facciamo presente per esempio che quelli sui sintomi sono stati raccolti anche attraverso questionari.

Il campione di studio sembra tuttavia ampio. Parliamo di 150 mila persone selezionate casualmente ogni mese (più di un milione in totale il 10 febbraio). Ovviamente non trattiano di «nuovi» sintomi nel senso che prima non esistessero o che nei casi clinici non venissero mai riportati. Il lavoro del React Study li individua assieme e li mette in evidenza. Sono informazioni importanti da condividere, per migliori diagnosi e nuovi spunti ai fini della ricerca.

C’è un problema però. Nei media questo lavoro viene esaltato soprattutto in ragione dei questi presunti quattro nuovi sintomi Covid. La premessa, ovvero trovare nuovi indizi della malattia tra gli asintomatici, è sicuramente importante. Tuttavia parliamo al momento di brividi, perdita di appetito, mal di testa e dolori muscolari. Tutti sintomi che possono venire riscontrati da chiunque a prescindere dalla Covid-19. È interessante invece studiare come potrebbero presentarsi affianco ai segnali classici della malattia, anche in rapporto delle diverse fasce di età. Studio interessante dunque, ma è ancora presto per saltare a conclusioni affrettate.

Per chi ha fretta:

  • Lo studio dell’Imperial College è interessante perché al momento ha coinvolto un milione di persone e può dare informazioni utili agli epidemiologi;
  • Trovare nuovi segnali della Covid-19 associati ai classici è importante per ottimizzare i tamponi nella popolazione;
  • Tuttavia lo studio è ancora in lavorazione e presenta dati correlativi;
  • I presunti nuovi sintomi sono molto comuni e raccolti facendo uso di questionari;
  • Attendiamo di vedere risultati definitivi in uno studio verificato da altri esperti, prima di arrivare a conclusioni fuorvianti.

Il cuore del problema: presintomatici e asintomatici

Avevamo già spiegato come i presintomatici fossero decisivi nella diffusione della Covid-19. Molti di questi non li vediamo nemmeno, perché non ne individuiamo immediatamente i sintomi, e li perdiamo così tra gli asintomatici. Quindi si tende a pensare che questi ultimi non abbiano alcun segno della malattia. Se trovati positivi il 60% di loro non segnala proprio alcun sintomo a una settimana dal test diagnostico. Altre stime suggeriscono che il 50% di loro presenta segni della malattia, ma solo dopo esami accurati. Insomma, l’assenza di sintomi negli asintomatici è un falso mito, già debitamente smontato.

Per tanto, se vogliamo individuare particolari sintomi passati in sordina, il terreno di difficile demarcazione tra presintomatico e asintomatico è uno di quelli più fertili. L’Istituto individua così quattro sintomi «classici» tipicamente associati alla Covid-19 (perdita dell’olfatto, del gusto, febbre e tosse persistente) più o meno associati ad altrettanti, che solitamente non vengono collegati alla malattia (brividi, perdita di appetito, mal di testa e dolori muscolari). Sono tutti sintomi estremamente comuni. Capiamo quindi quanto può essere difficile il compito dei medici e al contempo l’importanza strategica dei test diagnostici.

«Test su tampone e questionari raccolti tra giugno 2020 e gennaio 2021 nell’ambito dello REACT Study – continua Justine Alford per conto dell’Istituto – hanno mostrato che, tra questi altri sintomi, brividi, perdita di appetito, mal di testa e dolori muscolari erano insieme più fortemente legati all’infezione, insieme a quattro sintomi classici. Avere uno qualsiasi di questi altri sintomi o quelli classici, da soli o in combinazione, era associato all’infezione da coronavirus e più sintomi mostravano le persone più era probabile che risultassero positivi».

Fasce di età e varianti: ma i dati sono correlativi

I ricercatori hanno riscontrato anche una variabilità dei sintomi a seconda della fascia di età: dai 5 ai 17 anni prevale il mal di testa; tra i 18 e 55 la perdita di appetito; dolori muscolari tra i 18 e 54 anni; tutti avrebbero manifestato brividi. Inutile ricordare che parliamo di correlazioni.

Stabilire un rapporto causale è già difficile per patologie associate, come la MIS-C nei bambini, alcuni casi di gravidanze a rischio e alcune cardiopatie (sulle quali però abbiamo maggiori riscontri), figuriamoci se parliamo di sintomi riscontrabili per mille altri plausibili motivi. Si cercano anche indizi sull’influenza delle varianti-Covid nella presenza o assenza di certi sintomi. E qui il gioco si fa ancora più difficile.

«Tra il 7 ° round (da novembre a dicembre 2020) e l’8 (gennaio 2021) quando predominava la nuova variante B.1.1.7 [variante inglese], solo la perdita o il cambiamento dell’olfatto (più predittivo nel 7 ° round) e (borderline) nuova tosse persistente (più predittivo nel round 8) differivano tra i casi – leggiamo nell’abstract del preprint – A qualsiasi livello del test PCR, il triage basato sui sintomi qui identificati risulterebbe in più casi rilevati rispetto all’approccio attuale».

Le ragioni del React Study: estendere i sintomi per fare più tamponi

Nel Regno Unito come in altri paesi, gli addetti ai lavori hanno a disposizione un corredo di sintomi classici che servono a incanalare i potenziali malati ai test diagnostici. Se a seguito di studi come questo riusciamo ad ampliare il numero di indizi noti, sarebbe possibile individuare molti più casi accertati. Questo però dipende anche dal fatto che verrebbero eseguiti conseguentemente molti più test.

Tutto sta nel trovare criteri pertinenti che permettano di farlo in maniera ordinata ed efficiente. Se le ragioni per cui farsi fare il test non sono chiare, tanto meno le persone saranno disponibili a segnalare i propri sintomi. Una emorragia di dati che non possiamo permetterci. Una preoccupazione che non lascia indifferente nemmeno il direttore del progetto Paul Elliott:

«Siamo consapevoli della necessità di criteri di verifica chiari e che L’inclusione di molti sintomi che si trovano comunemente in altre malattie come l’influenza stagionale comporterebbe il rischio che le persone si autoisolino inutilmente».

Conclusioni: qual è il vero contributo importante del React Study

Lo studio in sé è già un campionamento importante di casi. Ogni mese i volontari devono eseguire dei tamponi da analizzare con l’analisi RT-PCR, che individua con estrema precisione la presenza delle tracce genetiche del virus. Per approfondire potete leggere la nostra Guida ai test diagnostici.

Inoltre, i volontari devono compilare un questionario su sintomi e situazioni sociali o lavorative in cui si trovano. Il gruppo di testati si amplia di mese in mese, cosa che potrebbe dare luogo a risultati importanti per la gestione dell’emergenza sanitaria nel mondo, al di là dei titoli sensazionalistici che il progetto potrebbe ispirare. Ricordiamo che nel momento in cui scriviamo i volontari hanno superato il milione di persone.

Foto di copertina: Mojpe | Comuni sintomi influenzali.

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