Quando Grillo definiva Letta «capo degli inciuci». Quale futuro per l’alleanza Pd-M5s?

Un ritorno dell’ex presidente del consiglio stravolge i piani dell’alleanza strutturale M5s-Pd pensata da Grillo e Conte

Continuano le ricadute politiche nel centrosinistra dopo l’arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Le dimissioni di Nicola Zingaretti dalla segreteria del Partito Democratico, la scalata di Beppe Grillo e Giuseppe Conte per trasformare il M5s, l’insurrezione di Davide Casaleggio con il movimento rivale ControVento e la richiesta degli arretrati dovuti dai parlamentari a Rousseau. Il governo di Draghi non è la causa, ma la conseguenza di conflitti, contraddizioni e posizioni irrisolte che da tempo covavano sotto la superficie. Ora sono costretti a uscire allo scoperto.


L’annuncio di un possibile ritorno di Enrico Letta si inserisce in questo contesto da resa dei conti e transizione forzata. Dopo uno stallo durato giorni, il Partito democratico ha deciso di risolvere il problema della leadership chiamando in causa il premier scalzato da Matteo Renzi nel 2014. Dopo quel periodo, Letta lasciò la politica italiana per un felice autoesilio a Parigi, tra l’università Sciences Po e l’Istituto Jacques Delors (due santuari dell’europeismo), ma senza mai perdere di vista l’Italia.


«Questa inattesa accelerazione mi prende davvero alla sprovvista. Avrò bisogno di 48 ore per riflettere e decidere», ha detto Letta, che ha già posto due condizioni che mettono in chiaro l’intenzione di fare sul serio: la sua candidatura dovrà essere sostenuta dalla larghissima maggioranza del partito, e farà il segretario fino a fine mandato, nel 2023. 

Grillo e Letta, opposti inconciliabili

Il governo Letta è stato in carica da aprile 2013 a febbraio 2014, un esecutivo di larghe intese resosi necessario dall’impossibilità di formare un governo guidato da Pier Luigi Bersani, leader della coalizione di centro-sinistra che aveva ottenuto la maggioranza alla Camera ma non al Senato (proprio a causa del grande successo del M5s). Risale a quel periodo la diretta streaming tra Bersani e i vertici grillini, imposta dal M5s solo per mettere in ridicolo i leader del Pd sui social. In quell’occasione a fianco di Bersani c’era Letta. 

Subito dopo, l’incarico di formare un governo allargato fu affidato a Letta che si trovò costretto a ripetere il rito della consultazione in streaming, ma stavolta con la possibilità (aveva già una maggioranza) di restituire la cortesia ai vertici grillini. Nei dieci mesi successivi, Beppe Grillo e il M5s attaccarono il governo prendendosi tutte le libertà che può prendersi un’opposizione senza incarichi. Letta è stato descritto da Grillo come capo di un inciucio, di un golpe, di un colpo di Stato per dividersi «ossa e poltrone della Seconda Repubblica» e «fare a pezzi la democrazia». 

Sette anni dopo, la rivoluzione grillina ha portato il M5s a essere un partito che ha governato con quasi tutte le forze politiche del Parlamento. Oggi il duo Conte-Grillo vorrebbe fare del M5s un partito socialdemocratico ambientalista, con Conte candidato a guidare la coalizione di centro-sinistra. Secondo le fonti, l’ex segretario Zingaretti era l’interlocutore privilegiato per creare un’alleanza strutturale M5s-Pd e competere alle prossime elezioni con un modello simile a quello del centrodestra, dove il capo della coalizione è leader del partito che prende più voti. Se Letta diventa il nuovo leader del Pd, il piano del duo Conte-Grillo dovrà essere profondamente rivisitato.

Lacerazioni democratiche

Letta dovrà vedersela in primo luogo con le divisioni interne. Nicola Zingaretti aveva ereditato la direzione del partito dopo la lunga fase del tramonto dei fasti renziani. Renzi, dal canto suo, nel 2019 ha fondato Italia Viva portando con se alcuni parlamentari, ma un gruppo di renziani è rimasto nel Pd nella corrente Base riformista. Le dimissioni di Zingaretti arrivano dopo le ostilità di questa corrente, che alcuni nel Pd considerano una falange di sabotatori al servizio di Renzi. La maggioranza dei dirigenti Dem non voleva le dimissioni di Zingaretti. Come possano essere risolte queste tensioni non è chiaro.

Gli ambasciatori dell’operazione Letta sono due pesi massimi come Dario Franceschini e Paolo Gentiloni e, per come si sono messe le cose, far scappare Letta comunicherebbe il messaggio che i Dem sono irredimibili, condannati all’implosione. L’appuntamento è fra pochi giorni, il 14 marzo ci sarà l’assemblea nazionale del Pd in cui individuare il segretario che accompagnerà il partito fino al prossimo congresso. 

Per Letta la posta in gioco va oltre il Pd

Nel 1997 Letta pubblicò il libro Euro sì. Morire per Maastricht, in contrapposizione al libro Euro no. Non morire per Maastricht di Lucio Caracciolo, direttore di Limes. All’epoca l’argomento discusso era l’opportunità di impegnarsi o meno per raggiungere i parametri di Maastricht, ovvero criteri di convergenza necessari a portare l’Italia nell’euro. Sappiamo come è andata.

Un tema simile sarà centrale nei prossimi cinque anni, in cui il Paese dovrà usare il Recovery Fund per rilanciarsi dopo la pandemia da Coronavirus e raggiungere nuovi obiettivi di sviluppo e convergenza, dimostrando che un bilancio comune europeo funziona, è sostenibile, e che quindi è possibile riformare l’eurozona. Da questo punto di vista, per un’europeista come Letta avrebbe perfettamente senso scegliere di tornare in campo per essere un protagonista della politica nazionale.

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