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Perché la variante indiana non deve preoccuparci. Cosa ci dicono i casi di India e Cile e i limiti dei vaccini

26 Aprile 2021 - 11:10 Juanne Pili
Ecco perché il doppio mutante indiano non dovrebbe preoccuparci

La nuova variante Covid «doppio mutante» proveniente dall’India è stata individuata per la prima volta nell’ottobre 2020. Già ai primi di aprile viene riconosciuta per la prima volta al di fuori del Paese, a San Francisco, come riferito dai ricercatori della Stanford University, sulla base di cinque casi.

Dopo la Svizzera e il Regno Unito è stato individuato un primo caso di variante indiana anche in Italia, suscitando non poche ansie. Intanto il ministro della Salute Roberto Speranza ha emanato un’ordinanza restrittiva nei confronti di chi è stato nel Paese. Gli esperti invece invitano alla cautela. Non risulta infatti più pericolosa delle altre.

In questo articolo spieghiamo perché è improbabile che la nuova variante renda il nuovo Coronavirus più pericoloso o resistente ai vaccini, nonostante proprio in India sia in corso una seconda ondata.

Doppio mutante

Si parla di doppio mutante, perché tra il corredo di mutazioni presenti nel genoma, troviamo due mutazioni che interessano una porzione importante dell’antigene, il RBD (Receptor Binding Domain), quella che interessa la capacità di legarsi a determinati recettori delle cellule (ACE2). Gli antigeni sono lo strumento che il virus usa per infettare le cellule. Parallelamente sono anche il bersaglio del sistema immunitario, che riconoscendoli «impara» a combattere il patogeno.

Parliamo delle mutazioni classificate come E484Q e L452R. Tra tutte le mutazioni note, quella che troviamo nelle varianti di maggiore preoccupazione (VOC) e che ha mostrato potenziali capacità di rendere SARS-CoV-2 più virulento, e/o capace di eludere le difese immunitarie, è la mutazione E484K; è abbastanza intuitivo che E484Q sia piuttosto simile a quest’ultima, ma non è la stessa cosa.

Le VOC sono al momento tre: «inglese»; «sudafricana» e «brasiliana». Le altre, che sono oltre un migliaio, sono da considerarsi varianti di interesse (VOI). Come spiegavamo in un precedente articolo sul tema, per quanto sia importante studiarle tutte, non è molto saggio allarmarsi ogni volta che ne salta fuori una nuova. È noto che parallelamente all’emergere della variante, in India si sia registrato un aumento preoccupante dei casi. Tuttavia, secondo le autorità indiane risulta in un numero limitato di rilevamenti. Parliamo per la precisione di 220 campioni su 361, raccolti nel solo Stato del Maharashtra. Inoltre, la variante era già presente in 21 Paesi. Solo nel Regno Unito si contano 103 casi a partire dal 22 febbraio.

La correlazione con il boom di casi in India

L’India sta registrando in questo periodo una seconda ondata di casi. Eppure risultava il 23 aprile al terzo posto nel mondo con oltre 138 milioni di dosi somministrate. Forse la spiegazione andrebbe cercata allora nel differente contesto indiano, come ha spiegato a RaiNews24 l’esperto di genomica comparata Marco Gerdol.

«La seconda ondata indiana ha colpito con tale ferocia che gli ospedali stanno finendo l’ossigeno, i letti e i farmaci antivirali – riporta Reuters –  Molti pazienti sono stati allontanati perché non c’era spazio per loro, hanno detto i medici di Delhi».

Il contesto dell’India è quello di un Paese dove non vigono le stesse misure di contenimento adottate in Occidente. Similmente a quanto potrebbe essere successo in Cile, che lo stesso aveva adottato una poderosa campagna vaccinale.

Le spiegazioni della seconda ondata indiana, potrebbero trovarsi quindi ben al di là delle varianti, ovvero nel sentimento errato di assoluta sicurezza, in un Paese che conta oltre un miliardo di cittadini. I vaccini da soli non bastano se non si osservano contemporaneamente efficaci misure di contenimento, come è emerso anche in un recente report del Governo britannico.

Foto di copertina: ANSA/SALVATORE DI NOLFI | A paramedic wearing protective gear as a precaution against the spread of the coronavirus COVID-19 leaves the ambulance car before an intervention with a patient suspected of having contracted the Covid-19 virus, in Geneva, Switzerland, 13 March 2020.

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