Niente panico per le varianti Covid e i vaccini, ma servono ulteriori studi (specie su quella sudafricana). Facciamo il punto

Le varianti inglese e sudafricana non sembrano rendere il virus invincibile. Per vincere la guerra contro il Covid, però, è importante evitare che si diffondano accelerando la campagna vaccinale

Si continua a parlare di varianti Covid, dal Sudafrica e dal Regno Unito. Il professor Giuseppe Ippolito ha ribadito in una intervista per La Stampa quanto già sapevamo (poco) sulla presunta possibilità che quella sudafricana in particolare sfugga ai vaccini:

«La variante sudafricana potrebbe ridurne l’efficacia – poi aggiunge – è certamente possibile che questa o altre mutazioni possano rendere meno efficaci i vaccini, ma va detto che quelli contro il Coronavirus, e penso soprattutto ai vaccini genetici come quelli a RNA o vettore virale, sono facilmente adattabili a nuovi ceppi».

Tutto questo potrebbe aver suscitato qualche allarmismo. La fiducia nell’efficacia dei vaccini anti-Covid, manifestata dallo stesso Direttore scientifico dell’Istituto Spallanzani, ci sembra invece inequivocabile.

Le mutazioni inglese e sudafricana sono relative a parti di antigene. Ovvero, il mezzo con cui un patogeno prende di mira le cellule e viene riconosciuto dagli anticorpi. Queste modifiche aiuterebbero il legame del virus con le cellule. Non di meno, tali varianti hanno mostrato evidenze limitate di questa maggiore capacità di sfuggire agli anticorpi prodotti dai vaccini. Di questo avevamo già parlato assieme al genetista Marco Gerdol.

Recenti studi ancora in attesa di revisione ci dicono qualcosa in più; da una parte sul collegamento tra uso di plasma iperimmune in pazienti con bassa immunità e lo sviluppo di varianti; dall’altra sulla capacità di vaccini come quello di Pfizer, di rispondere piuttosto bene anche alla cosiddetta «variante inglese», mentre non ci sono ancora sufficienti studi su quella sudafricana. Prima però diamo un po’ di contesto.

Per chi ha fretta:

  • Le varianti Covid più note potrebbero essere emerse in circostanze particolari su pazienti immunocompromessi sottoposti a plasma iperimmune e antivirali;
  • Sono stati osservati pochi casi relativamente al totale dei genomi sequenziati fino a oggi;
  • Sono stati condotti interessanti studi in vitro su campioni di plasma convalescente o di vaccinati con risultati contraddittori, dove delle varianti mostrerebbero o meno di sfuggire agli anticorpi;
  • Un conto è osservare certi fenomeni prodotti nelle colture in vitro, un altro è come il virus si comporta effettivamente nella realtà;
  • Ad oggi non vi sono sufficienti evidenze per ritenere che singole mutazioni dell’antigene virale possano rendere inutili i vaccini.

Cos’è il Receptor Binding Domain (RBD)

Le varianti che ci preoccupano riguardano mutazioni relative al Receptor Binding Domain (RBD). È proprio quella la porzione di antigene del nuovo Coronavirus, la glicoproteina Spike (S), che interessa la capacità di legarsi a determinati recettori delle cellule (ACE2). Tutto questo è molto più complicato di così, e ci scusiamo per le semplificazioni.

Queste mutazioni sono note ed estremamente rare. Tuttavia una pandemia con numerosi casi quotidiani, aumenta la probabilità che si verifichino. Le varianti sono emerse da qualche centinaio di singoli casi, a fronte di oltre 300 mila genomi sequenziati fino a oggi.

«Il più delle volte tuttavia, tali varianti restano limitate a casi singoli o a piccoli cluster di infezioni circoscritti – ci aveva già chiarito Gerdol – che non portano a sviluppi epidemiologici di particolare rilievo, vuoi perché il mutante non presenta alcun vantaggio in termini di fitness, vuoi perché il caso gioca spesso e volentieri un ruolo fondamentale nelle fasi iniziali della diffusione di una nuova variante che, è bene ricordarlo, per definizione è inizialmente legata ad un singolo individuo, che con Rt di poco superiore ad 1, ha una probabilità relativamente elevata di non contagiare nessuno».

Le singole mutazioni al genoma virale possono anche presentarsi come binari morti nella sua evoluzione, o ricomparire indipendentemente altrove. Anche le circostanze che ne favoriscono la comparsa sono importanti. C’è da dire che proprio circostanze come queste riescono a confermare – se ce ne fosse ancora bisogno – la validità della teoria dell’evoluzione. Sono almeno due i contesti che possono creare la pressione selettiva adatta:

  • Pazienti immunocompromessi, trattati per periodi prolungati con plasma iperimmune e antivirali;
  • Nuovi passaggi verso altri animali, per poi tornare nell’uomo. Ecco perché recentemente è stato necessario abbattere un grande numero di visoni da allevamento.

Ecco come funziona

Facciamo un parallelo – giusto per spiegare il concetto – col fenomeno della farmaco-resistenza dei batteri. L’uso – spesso a sproposito – degli antibiotici, ha creato una forte pressione selettiva. Così sono emersi batteri più forti, tanto da rappresentare una emergenza globale per l’OMS. Fare un paragone sarebbe invece scorretto, perché nel caso di SARS-CoV-2 parliamo di particolari mutazioni circoscritte al RDB.

La variante Sudafricana è più forte degli anticorpi?

A ben vedere c’è un altro contesto nel quale possiamo vedere la pressione selettiva far emergere delle varianti, quello delle sperimentazioni in vitro. È il caso di un recente studio ancora in attesa di revisione, eseguito valutando un campione di plasma di un convalescente.

Pubblicata dal gruppo Rappuoli di Siena, la ricerca mostra l’emergere in vitro di una variante che dovrebbe funzionare in maniera simile a quella Sudafricana, per via del tipo di mutazioni che presenta al RBD. Si intitola «Fuga [immunitaria] di SARS-CoV-2 in vitro da un plasma altamente neutralizzante [di paziente] convalescente COVID-19».

In sintesi, hanno messo in coltura SARS-CoV-2 per diversi cicli di sperimentazione a contatto col plasma, quindi con gli anticorpi neutralizzanti ivi presenti. Dopo dodici passaggi il virus era già in grado di moltiplicarsi con meno difficoltà nelle cellule usate per la coltura. Proseguendo ulteriormente è infine apparsa una variante avente la mutazione «E484K», che troviamo anche nella variante sudafricana. Riguarda una porzione della proteina Spike (S), che interessa proprio RDB.

Sicuramente si tratta di evidenze notevoli. Non di meno, vanno prese con le dovute prudenze. Innanzitutto perché, come accennavamo, è una situazione costruita in vitro. Sicuramente è un dato in più che ci mostra in maniera lampante, quanto lasciare il virus libero di moltiplicarsi non sia una buona idea e come l’ipotesi di sconfiggere il contagio lasciando che gli asintomatici portino la malattia nella società non abbia fondamenti scientifici (come invece sosteneva la Great Barrington Declaration, che fece discutere qualche mese fa).

In generale perché una variante riesca a sfuggire agli anticorpi nella realtà, non basta che questa esista, deve avere il tempo di adattarsi al complesso meccanismo del Sistema immunitario, senza perdere qualcosa nel suo sviluppo riproduttivo (la cosiddetta fitness).

Per questo è necessario avviare tempestivamente ampie campagne vaccinali mirate, per ridurre drasticamente le possibilità del virus di propagarsi, aumentando la probabilità di sviluppare varianti, in grado poi di adattarsi al nostro Organismo. Ritenere che siamo arrivati già a questo punto ci sembra prematuro. Non di meno, va benissimo continuare a monitorare la situazione.

Queste varianti renderanno i vaccini obsoleti?

L’ideale sarebbe condurre esperimenti, dove si osserva in che modo il plasma di soggetti vaccinati risponde a tali varianti. Parliamo sempre di test in vitro. Vale sempre la regola della massima prudenza. Esistono studi di questo tipo? Uno in particolare, uscito di recente e in attesa di revisione, pone la lente d’ingrandimento sul vaccino di Pfizer. Come risponde alla cosiddetta «variante inglese»?

Lo studio, prodotto dalla stessa Pfizer, prende in esame il siero di 20 volontari che hanno assunto il vaccino dell’azienda, costituito da un frammento di RNA in grado di far produrre alle cellule la sola glicoproteina Spike (S), addestrando in questo modo il nostro Organismo a produrre gli anticorpi, quindi prevenendo almeno i casi gravi di Covid-19. Il farmaco viene classificato anche col codice «BNT162b2»

I ricercatori hanno messo in coltura SARS-CoV-2 recante una mutazione in comune con le varianti inglese e sudafricana, nota come «sostituzione N501Y». Ebbene, gli anticorpi neutralizzanti sembrano rispondere come previsto. Oltre a questo gli autori avrebbero osservato che il vaccino sarebbe protettivo anche contro altre 15 mutazioni del virus. Manca invece una verifica sulla già citata mutazione E484K, tipica della variante sudafricana.

Conclusioni: niente panico

Quanto emerso da studi preliminari tende al momento a suggerire che sia indispensabile portare avanti piani vaccinali estesi alla popolazione più a rischio, al fine di togliere terreno fertile a varianti potenzialmente pericolose. Non di meno, sostenere che queste varianti si siano già adattate, in modo tale da rendere i vaccini di ultima generazione incapaci di contrastare il virus, risulta attualmente prematuro.

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