Coronavirus, cosa sappiamo e cosa non sappiamo della «variante inglese». Facciamo il punto, con Marco Gerdol

La variante è nata nel Regno Unito? Siamo sicuri che sia contagiosa come dicono? Ne abbiamo parlato con il genetista Marco Gerdol

Se dobbiamo parlare di una nuova variante del virus, come la cosiddetta «variante inglese» del Sars-Cov-2, è bene consultare un genetista, come nel caso del ricercatore in genetica comparata ed evolutiva Marco Gerdol dell’Università di Trieste già consultato da Open Fact-checking per il caso dello Yan-Report. In questo articolo facciamo il punto – insieme a Gerdol – su diversi aspetti che riguardano non solo questa variante, ma soprattutto il sistema di monitoraggio e le eventuali problematiche che possono emergere se non vengono sequenziati i vari genomi in ogni Paese del mondo.

La cosiddetta «variante inglese» è nata nel Regno Unito?

Non è detto che questa variante sia nata in Inghilterra. Quello che sappiamo è che i circa tre quarti di genomi sequenziati in Europa arrivano dal Regno Unito dove esiste un sistema di sorveglianza elevata rispetto ad altri Paesi, come quelli dell’Est Europa e sudamericani. In mancanza di questi monitoraggi risulta difficile scoprire la vera origine della cosiddetta «variante inglese» che per quel che ne sappiamo potrebbe avere l’«accento svedese».

Quando è stata scoperta questa variante?

La cosiddetta «variante inglese» è stata isolata il 20 settembre ed la frequenza con cui è stata individuata nei casi positivi è aumentata con l’andare avanti nel tempo.

Nel Regno Unito ci sono molte varianti

Nel Regno Unito il numero di genotipi che viene sequenziato ogni giorno è molto ampio, questo grazie alla sorveglianza molecolare che è stata messa in atto tra il Governo e un consorzio tra vari istituti chiamato COVID-19 Genomics UK (COG-UK), finanziato dall’esecutivo. L’istituto capofila è il Wellcome Trust Sanger Institute, uno dei centri di sequenziamenti di genomica più importanti in Europa e nel mondo. Tutti i genomi sequenziati e catalogati vengono poi caricati in un database pubblico dove possono essere recuperati permettendoci di leggere molti dati epidemiologici.

Ci sono altre varianti più o meno serie?

Diverse varianti che potrebbero avere implicazioni importanti per quanto riguarda l’immunologia non sono state sbattute sulle prime pagine dei giornali o nelle note d’urgenza governative. Chi monitora queste varianti lo fa da tempo, per esempio in Sudafrica ce ne è un’altra che potrebbe essere più interessante dal punto di vista immunitario.

Quale potrebbe essere l’origine della «variante inglese»?

Ci sono tre ipotesi. La prima è quella della provenienza dall’estero, probabilmente da un Paese dove non c’è un sistema di monitoraggio come quello britannico o danese. La seconda ipotesi è che sia emersa in qualche paziente immunodepresso con una malattia particolarmente lunga, con cariche virali molto alte, sottoposto a diverse dosi di plasma iperimmune e Remdesivir che potrebbero aver portato a una sorta di accelerazione dell’evoluzione virale. La terza ipotesi, che spiegherebbe questo shift evolutivo in un tempo così breve, potrebbe essere il passaggio da un ospite animale e un successivo rientro nell’uomo.

Quale delle tre ipotesi è la più accreditata?

Sono tutte e tre affascinanti, ma non abbiamo prove concrete per sostenere una certezza. Nel Regno Unito puntano sulla terza ipotesi, quella di un paziente immunodepresso molto raro in cui ci sia stata una lunga persistenza del virus con un’alta carica virale. Il genoma virale in questo genere di paziente, trattato con plasma iperimmune e Rendevisir, viene sottoposta una «pressione evolutiva» artificiale che tende ad accumulare delle mutazioni con un ritmo molto più elevato rispetto al resto della popolazione.

Questa variante è più contagiosa?

Non c’è alcuna certezza che questa variante sia più contagiosa di altre. Potremmo considerare il caso della Danimarca, dove c’è un sistema di sorveglianza e sequenziamento serio, dove questa variante è circolata già da oltre un mese senza riscontrare un’esplosione di casi paragonabile a quella che abbiamo avuto noi in Italia, ad esempio. La riteniamo una variante interessante dal punto di vista epidemiologico, ma anche sull’aspetto dell’effettiva maggiore trasmissibilità bisogna essere molto cauti.

Perché viene considerata così contagiosa in UK?

Si ipotizza sulla base dell’aumento proporzionale del numero dei casi dovuti a questa variante e potrebbe essere legato a dinamiche demografiche. La «variante spagnola» di questa estate era stata considerata più contagiosa, ma è risultato abbastanza chiaro che la sua diffusione era dovuta ai movimenti vacanzieri da e verso la Spagna. Tornando nel Regno Unito, la forte espansione della variante potrebbe essere spiegata dalle diverse dinamiche che hanno caratterizzato la zona di Londra e del Sud Est, con un trend in continua crescita dei casi, rispetto al forte calo che si è visto nelle altre regioni dove sono state prese diverse misure restrittive su base locale. Tra un effetto che può essere marginale che si può apprezzare nell’arco di due o tre mesi e dire che questa variante è «il doppio più contagiosa» ce ne passa.

C’è troppo allarmismo su questa variante?

Se fosse vera l’elevatissima trasmissibilità, ci dovremmo trovare un’esplosione dei casi con questa variante anche in Danimarca. I casi stanno aumentando, ma non c’è una tendenza a un aumento legato a questa variante, che resta legato a pochi casi. Forse questo allarme è un po’ eccessivo.

I vaccini sono a rischio?

Il vantaggio di alcuni vaccini è basato sulla proteina Spike intera, per questo in futuro potrebbe esserci la necessità di aggiornare il vaccino. Sicuramente non parliamo dei prossimi mesi e di questa campagna vaccinale che ci sarà, il virus difficilmente sparirà. Si sa che l’immunità verso i coronavirus non è protettiva per tutta la vita e potrebbe essere necessario organizzare dei richiami, tra un anno o due, aggiornando il vaccino.

Cosa comporta nei test PCR?

Il test diagnostico più affidabile, quello RT-PCR (detto anche test molecolare), si basa proprio sul riconoscimento del codice genetico specifico del SARS-CoV-2. Quindi una delle principali preoccupazioni nell’opinione pubblica è che questo genere di varianti possano falsare i test molecolari. Questi per funzionare utilizzano dei «primer», ovvero sequenze di codice genetico in grado di individuare il nuovo Coronavirus.

Non di meno, l’esistenza di varianti è già noto e se ne tiene conto. Non esiste dunque nessun problema particolare per i test molecolari PCR. I problemi più rilevanti potrebbero riguardare alcuni test commerciali, rientriamo comunque nella ordinaria amministrazione.

Può sempre capitare, per esempio, che i primer non siano aggiornati in alcuni test commerciali, a seguito di nuove mutazioni, generando falsi negativi. Anche per questa variante – come per altre in precedenza – è già uscita una nota tecnica, dove si invita a prestare attenzione ai primer utilizzati, che possono quindi essere aggiornati.

C’è il rischio reinfezione?

Quello che bisogna monitorare nelle prossime settimane è se questa variante possa essere associata a un aumento dei casi di reinfezione. Per adesso non sembra, ci sono dei dati molto preliminari che non ci danno certezza. Inoltre, i primi casi riscontrati con questa «variante inglese» potrebbero essere stati positivi asintomatici durante la prima ondata e non rilevati durante il tracciamento. Ecco perché risulta difficile essere certi sulle capacità di reinfezione.

Cosa cambia in termini di prevenzione?

Questi sono aspetti interessanti da studiare per chi si deve occupare di monitoraggio o di vaccini e cure, mentre per quanto riguarda il comune cittadino non cambia nulla dal punto di vista della prevenzione. Le precauzioni da utilizzare sono sempre quelle, la presenza di questa «variante inglese» non dovrebbe comportare nulla di più di quanto già facciamo in termini di utilizzo delle protezioni, delle mascherine, del distanziamento e via dicendo.

Il Regno Unito ha delle colpe in questa vicenda?

La comunità scientifica era già a conoscenza di questa mutazione e di molte altre. Questa «variante inglese» è una delle tante che sono state riscontrate e fino a qualche settimana fa non c’era una particolare situazione emergenziale. C’è l’impressione che l’aumento di frequenza nella zona londinese sia stata un po’sfruttata dal governo per tentare di giustificare in qualche modo le nuove misure restrittive, evitando a Boris Johnson di fare dei «passi indietro» dopo essersi mostrato contrario a nuovi lockdown.

Potrebbe essere già circolata in Italia?

Parliamo di una variante di cui siamo a conoscenza da settembre e che circola da diversi mesi a Londra, una città dove lavorano moltissimi italiani che potrebbero essere tornati nel frattempo in Italia, così come altri cittadini di altre nazionalità nelle rispettive terre di origine. Rispetto al Regno Unito abbiamo sequenziato pochissimi genomi, se ci fosse stato un monitoraggio come quello britannico forse avremmo potuto riscontrarlo qualche mese fa. Ecco perché non possiamo supporre che la «variante inglese» non sia presente nel nostro Paese da parecchio tempo.

Ha senso un blocco delle frontiere?

Le chiusure che stanno attuando in tutta Europa verso il Regno Unito, così come le ipotesi di bloccare i voli dai Paesi europei dove è stato riscontrata la variante, potrebbero essere per lo più dimostrative: far vedere al mondo che si sta facendo qualcosa. Se la variante circola davvero da settembre a Londra, luogo di arrivo e di partenza per cittadini di diversa nazionalità, è ingenuo pensare che non sia già arrivata all’estero. Sta di fatto che se in Italia continuiamo a sequenziare così pochi genomi, non potremo renderci conto della presenza di questa e altre varianti nel nostro territorio.

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