Variante Covid, i ritardi di Londra e il déjà-vu cinese. Il governo inglese sapeva della mutazione da settembre?

Nelle ultime ore non una sola voce ha accusato Londra di aver tenuto nascosto il pericolo serio di un genoma modificato almeno dal mese di settembre. Ecco quanto c’è di vero (finora) nelle incriminazioni

Quando l’ennesima minaccia di un virus, variato e forse diventato più cattivo nella sua capacità di trasmissione, piomba su un pianeta già estenuato da una lotta senza fine apparente, le domande non riguardano solo la soluzione da dover trovare. Qualcuno sapeva già? Potevamo prevenire? La scienza ci aveva già parlato? E così come in un déjà vu, i sospetti sui possibili occultamenti da parte del Regno Unito sul pericolo della nuova variante Covid, ci riportano a primi tempi di pandemia, quando i ritardi della Cina gettavano non poche ombre su un potere politico e sanitario gestito in maniera occulta e autoritaria. Nelle ultime ore non una sola voce ha accusato Londra di aver tenuto nascosto il pericolo serio di un genoma modificato almeno dal mese di settembre. Accuse per il momento non certificate ma che i dati scientifici pubblicati in queste ore di grande agitazione, tendono a infuocare, mostrando come la variante fosse presente in Gran Bretagna, e non solo, già diversi mesi fa.


I dati scientifici che alimentano il sospetto

Una delle voci più autorevoli che si è espressa a proposito del tempo di diffusione della nuova variante, è quella del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. La dichiarazione riportata dai media è stata quella di una modificazione del virus già presente agli inizi di novembre. Esaminando il documento scientifico dell’Ecdc, la data del primo novembre risulterebbe quella già interessata da casi legati alla variante:


In Galles, al 14 dicembre 2020, 20 individui erano stati identificati con questo virus variante di 4.733 campioni sequenziati raccolti dal 1° novembre.

E ancora, sempre in relazione al periodo di novembre, si legge:

La Danimarca ha segnalato 9 casi, i Paesi Bassi hanno segnalato 1 caso e 1 caso anche l’Australia identificato tramite GISAID EpiCov Banca dati.

Ma i dati per l’Inghilterra vanno ancora più indietro nel tempo, esattamente al 20 di settembre:

Dal 13 dicembre 2020, 1.108 individui sono stati identificati con questa variante del virus in Inghilterra, con il primo caso risalente al 20 settembre 2020.

ECDC| La scatola nera rappresenta la nuova variante di SARS-CoV-2. I nodi disegnati sono i cluster formati dalla mutazione e colorati in modo differente a seconda del Paese: Regno Unito (arancione), Australia (grigio), Danimarca (verde)

Dello stesso parere sulla diffusione della variante nel mese di settembre, anche la genetista Emma Hodcroft, esperta di genetica virale presso l’Università di Berna, che dopo l’annuncio del ministro della Salute inglese Hancock, ha cominciato a studiare il fenomeno, fornendo importanti chiarimenti sull’entità della variazione e sulla sua diffusione.

Londra sapeva?

Difficile dire con certezza, almeno per il momento, se il governo britannico fosse già al corrente di quello che i dati scientifici oggi raccontano. Le accuse a Boris Johnson sono arrivate in maniera piuttosto diretta anche dall’Italia, con il professor Walter Ricciardi in prima linea a sostenere l’occultamento almeno dal mese di settembre. Ma le prove di quanto sostenuto non ci sono. Nessun documento scientifico in possesso del governo, nessuna comunicazione segreta da parte del ministro della Salute sul famoso 70% in più di trasmissibilità della mutazione.

Tenendo dunque per buona l’innocenza del governo britannico su una mancata comunicazione della pericolosa evidenza scientifica, qualche dubbio sulla tempistica seguìta per la messa in emergenza sorgere lo stesso. Ripercorrendo le mosse del governo britannico dagli inizi delle comunicazioni ufficiali possiamo tornare indietro agli inizi di dicembre, esattamente al 9, quando il capo dei consulenti scientifici del Governo, Patrick Vallance, dichiarava dati piuttosto invasivi riguardo proprio la nuova variante: presente nel 62% dei casi riscontrati a Londra, nel 59% dell’Inghilterra orientale e 43% nel Sud-est. Ad accompagnare i dati anche queste parole di Vallance:

«I virus mutano continuamente. Questa è una particolare costellazione di variazioni che riteniamo importante e pensiamo che potrebbe essere presente in altri Paesi. Potrebbe avere avuto origine qui, non lo sappiamo per certo».

Nessun riferimento alla possibile maggiore capacità di trasmissione, o al segnale che l’infettiva impennata di casi che il Paese stava attraversando già da tempo poteva rappresentare: il dato dell’Ecdc parla chiaro sull’evidentissima impennata di contagi di Covid-19 nel Regno Unito a partire da ottobre e ben riassunta in questo grafico:

Le cose vanno avanti fino al 14 dicembre, data della comunicazione ufficiale del ministro della Salute inglese Hancock alla Camera dei Comuni. Iniziano le rivelazioni che riguardano fatti in evoluzione già da diversi giorni. Il primo passo avanti è l’ammissione da parte di Hancock riguardo la registrazione, da almeno una sessantina di autorità locali, di infezioni da Covid-19 legate proprio alla nuova variante. Emerge anche che gli scienziati inglesi erano stati messi a lavoro sulla mutazione segnalata e che il dossier era già stato inviato all’Organizzazione mondiale della Sanità.

Un lavoro impegnativo e, seguendo i tempi ufficiali del governo inglese, portato avanti a questo punto anche con grande urgenza che avrebbe visto dal 9 al 14 di dicembre il succedersi di valutazioni, e poi decisioni, sulla questione variante, rendicontate al resto del mondo solo a passi già compiuti. Sul fronte scientifico poi le rassicurazioni sono arrivate fino agli ultimi giorni prima della decisione sul lockdown totale. Nella stessa data del 14 dicembre, Mike Ryan dell’Oms aveva quasi parlato sottolineando come la variante inglese fosse stata inserita tra tutte le altre segnalazioni delle diverse mutazioni fino a quel momento avvenute. Una delle tante dunque?

Alla luce della comunicazione di Boris Johnson del 19 dicembre, sembrerebbe di no. Ma prima della decisione del premier sulla misura di un lockdown totale fino al 30 dicembre a causa della nuova variante, l’ulteriore comunicazione dell’Oms non aveva dato segnali allarmanti. «Non ci sono prove che si comporti in maniera diversa dalle altre già note», aveva detto Maria Van Kerkhove durante il briefing sulla pandemia, aggiungendo che la situazione era monitorata dal Virus Evolution Working Group «nel contesto delle mutazioni scoperte nei visoni in diverse parti del mondo».

La mutazione che oggi preoccupa il mondo sarebbe stata quindi inserita all’inizio nel gruppo delle varianti dei visoni. Le stesse che, come spiegato da Open settimane fa, erano state definite da Nature come del tutto innocue rispetto «al potenziamento della trasmissibilità virale». Poi di colpo il cambio di rotta, un segnale che per queste insieme di ragioni, potrebbe far sorgere dubbi sulla possibilità di un intervento preventivo mancato o peggio ancora di una comunicazione tutt’altro che tempestiva.

Tra rassicurazioni dell’Oms, e percentuali preoccupanti risalenti già ai primi di dicembre, l’allarme lanciato a piena voce rimane di due giorni fa. Uno scenario che vede ancora una volta nei ritardi il suo spettro peggiore. Che non solo spaventa, ma indebolisce un intero sistema in cui la garanzia di trasparenza è ormai sempre di più anche una questione di salute.

Foto: Jack Finnigan/Unsplash

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