Afghanistan, la lunga rappresaglia dei talebani: «I primi raid contro gli intellettuali dopo gli accordi di Doha»

I miliziani cercano casa per casa collaboratori statunitensi, della Nato e dell’ex governo. Una cooperante: «Ho visto persone picchiate e frustate all’aeroporto»

Nella prima conferenza stampa dopo la presa di Kabul, il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid aveva assicurato che i miliziani avevano «perdonato tutti coloro che hanno combattuto» contro di loro, sottolineando che «le animosità e le violenze sono finite: non vogliamo nemici esterni o interni. Nessuno sarà danneggiato – ribadiva Mujahid – non vogliamo avere problemi con la comunità internazionale». Sono bastate però poche ore per portare alla luce una realtà ben diversa da quelle parole. I talebani hanno sparato sulla folla a Jalalabad, uccidendo tre persone e causando decine di feriti. Hanno giustiziato un capo della polizia. E i rastrellamenti casa per casa, a Kabul e nelle altre roccaforti del Paese, così come nelle province, continuano di giorno in giorno.


I miliziani hanno messo nel mirino – e non da oggi – collaboratori, interpreti, giornalisti, membri delle organizzazioni non governative (e le relative famiglie) che nel corso di questi vent’anni hanno collaborato con l’esercito statunitense, con la Nato o con l’ex governo afgano. Rastrellamenti e omicidi erano iniziati ben prima della presa di Kabul. Già ai tempi degli accordi di Doha, all’inizio del 2020, le milizie avevano avviato raid mirati contro attivisti giornalisti, donne e uomini impegnati nello sviluppo del Paese, «gli intellettuali e coloro che hanno una istruzione superiore e che avrebbero potuto contribuire alla trasformazione dell’Afghanistan» e contro le loro famiglie, come spiegato da una cooperante a la Repubblica


«I talebani agiscono di notte, ma adesso anche in pieno giorno. Sanno benissimo dove cercare, hanno i nostri nomi, i nostri indirizzi, i dettagli delle nostre famiglie. Siamo convinti che i loro servizi di intelligence siano aiutati da quelli pakistani, che negli anni hanno sempre visto chiunque lavorasse per la coalizione a guida Nato e lo stesso governo Ghani come collaborazionisti al soldo di Washington e Nuova Delhi», racconta al Corriere Salim, un ricercatore universitario.

La fuga a ostacoli dall’aeroporto di Kabul

Per molti attivisti, collaboratori, interpreti e per le loro famiglie, la fuga dall’aeroporto Hamid Karzai di Kabul resta quasi impossibile. Anche chi rientra nelle liste di evacuazione stilate dai singoli Paesi, spesso, non riesce ad accedere allo scalo perché le forze straniere non hanno più il controllo della città e, di conseguenza, non riescono ad assicurare un trasferimento sicuro verso lo scalo della capitale afgana. È il caso di Nahal, ex dipendente della cooperazione italiana e delle sue tre sorelle, una delle quali incinta all’ottavo mese, che al Corriere racconta: «All’ingresso dell’aeroporto ci siamo subito rese conto di quanto fosse difficile passare. Prima di tutto i talebani insultavano e picchiavano con bastoni e fruste chiunque cercasse di entrare. Ma soprattutto la folla e la ressa contro il secondo cancello urlava e spingeva rendendo impossibile l’ingresso».

La ex cooperante spiega che alcuni riescono a superare la calca e a imbarcarsi sui voli per fuggire dal Paese, ma molti devono desistere e riprovarci nei giorni successivi. «Mi hanno detto che ci saranno altri voli di evacuazione. Riproveremo – assicura Nahal – Riproveremo ancora: non voglio che mio nipote resti senza istruzione o che alle mie sorelle sia negato il diritto di esistere. Ce l’ha insegnato nostro padre: dobbiamo lottare per la nostra vita. È tutto così ingiusto e non ho più forze. Ma non posso arrendermi».

Foto in copertina: ANSA / DVIDS HANDOUT

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