Caso ginnastica, parla Camossi, allenatore di Jacobs: «Attenzione alle richieste fatte ad atleti 13enni. Ma se chi gareggia sceglie consapevolmente la rinuncia non è sacrificio»

L’allenatore ed ex campione mondiale ad Open: «Ho convinto Marcell a togliere un molare per correre più veloce ma litigheremmo se gli chiedessi di pesarlo tutti i giorni. Per vincere mi mettevo davanti la bevanda zuccherata che mi avevano vietato»

È un momento delicato per lo sport, per quel mondo raccontato spesso tramite medaglie e grandi imprese, frutto di sacrifici portati ad esempio non solo per il raggiungimento delle vette di classifiche e punteggi, ma per la costruzione umana di ogni suo protagonista. È per questo che mentre le testimonianze delle atlete della ginnastica ritmica parlano di richieste diventate vessazioni, gli addetti ai lavori in primis ma anche chi è lontano dalle ambizioni dell’agonismo, si ritrova a chiedersi fin dove possa spingersi il sacrificio di chi sogna per se stesso i traguardi più alti. Una risposta non facile da trovare e che Paolo Camossi, allenatore di un campione mondiale come Marcell Jacobs, prova a dare conoscendo, prima da vincitore olimpico e poi da preparatore atletico di un oro italiano, le tappe per arrivare a essere chiamato campione. Ha conosciuto Jacobs quando aveva 22 anni e nella sua carriera si è trovato spesso ad allenare ragazze e ragazzi adolescenti. A quella stessa età in cui lo stesso Camossi sognava di diventare un campione, riuscendoci anni dopo con un oro mondiale.


Dedizione o costrizione. Camossi, come si forma un campione?


«L’agonismo viene dal termine greco agone che vuol dire lotta. E lottare per un obiettivo deve essere una libera scelta dell’atleta. Lo sport è di tutti, ma non è per tutti. C’è una parte che garantisce il benessere fisico, che contribuisce al buono stato di salute di ogni essere umano. E poi c’è l’agonismo puro. E l’approccio nell’agonismo pure è lo stesso di chi vuole laurearsi con 110 e lode. Di chi vuole eccellere nel suo lavoro. Se il presupposto della libera scelta si rispetta, se l’obiettivo della medaglia è lo stesso per l’atleta e per l’allenatore allora niente è considerabile sacrificio».

Per questo avete deciso di togliere persino un dente a Jacobs affinché corresse più veloce?

«C’era un problema tecnico sulla gamba destra e ho cercato in tutti i modi di lavorarci dal punto di vista fisico, tecnico, muscolare. Le gambe continuavano a non girare. A quel punto ci siamo trovati con l’Istituto di Scienze dello sport e i tecnici a chiedere un consulto di uno specialista. Il dente che in quel momento creava problemi a Marcell stava incidendo sulla sua postura. Se lo avessimo rimosso i problemi sarebbero scomparsi. Parlandone con lui ci ha detto “Mi servirà a correre più veloce? Facciamolo“. Per questo dico che il percorso per raggiungere le vette più alte deve essere una scelta condivisa, l’atleta deve essere pronto a rinunce che se fatte per il suo sogno più importante non rappresenteranno neanche più dei sacrifici».

Da atleta ha raggiunto i suoi primi record nel 91′ quando aveva appena 17 anni. Da lì la strada che nel 2001 lo ha portato allo storico oro di Lisbona in cui batté il fenomeno britannico Edwards. E’ sempre riuscito a fare rinunce con la scelta consapevole di cui parla adesso da allenatore?

«Ho un ricordo che può sembrare stupido ma una delle cose che mi dava più noia tra le regole da dover seguire era il non poter bere la conosciuta bevanda gassata di colore nero che a quei tempi mi piaceva moltissimo. Quando dovevo gareggiare la compravo e la tenevo nel frigorifero. Averla lì mi faceva da stimolo: la vedevo, e mi dicevo “Vinco io, non ti bevo”».

Anche a 13 anni, più o meno l’età delle ginnaste che in questi giorni stanno parlando?

«A 13 anni forse non mi permettevano di berla. Effettivamente a quell’età non era una scelta libera neanche per me. Ma ho sempre tenuto fisso nella mente quello che volevo fare. Rimane comunque il fatto che l’agonismo non è per tutti».

Michael Phelps, Simon Biles, Sonny Colbrelli, nomi di campioni eccezionali che a un certo punto scelgono di ritirarsi dicendo «valgo più dei miei successi». Come se lo spiega? Tutti inconsapevoli delle loro scelte di vita fino a quel momento?

«Quando un atleta vince tanto, soprattutto da molto giovane, spesso succede che durante la strada che porta alla medaglia si sia immersi nella voglia, a volte ossessiva, di arrivare alla meta. Ma una volta in cima arriva il momento più difficile. Quello in cui i tuoi obiettivi sono raggiunti, in cui quello che è stata la tua ragione di vita per mesi non c’è più e ti ritrovi davanti a una scelta. Porti subito un’altra meta, ma non è detto che tu riesca ogni volta a trovare la stessa linea di sacrificio o dedizione, oppure fermarti. Nel momento in cui ci si distacca dalla “trance agonistica” possono cominciare a riaffiorare tutti i momenti difficili e dolorosi del tuo percorso, che a quel punto assumono un valore differente anche per te».

Allenatore, nutrizionista, psicologo. I grandi campioni come Jacobs hanno uno staff che interviene su ogni aspetto della sua preparazione. Open ha raccontato l’importante ruolo di Nicoletta Romanazzi, mental coach del vostro team, sui traguardi raggiunti da Marcell. Si è mai trovato da allenatore a dare direttive specifiche sull’alimentazione o sull’approccio mentale da dover adottare?

«Mai. Ho sempre fatto presenti agli atleti che ho allenato in passato e a Marcell che ci sono delle prerogative, dei parametri e dei requisiti da rispettare se si vogliono avere determinate prestazioni. Così come succede nella boxe per le categorie di peso o in qualsiasi altra disciplina. Ma da allenatore mi sono preoccupato di non sconfinare mai nelle indicazioni che non mi competevano. Marcell ha sempre avuto i controllo dal suo nutrizionista, o i suoi consulti con la mental coach. Un percorso certo congiunto con quello della mia preparazione ma necessariamente parallelo. E’ chiaro poi che il mio ruolo influirà nelle ore di allenamento che l’atleta deve fare, si allenano due anche tre volte al giorno, per una media di 7-8 ore quotidiane, il resto delle 24 ore deve essere dedicato al sonno in quantità stabilite. Uno stile di vita che è lo stesso atleta a voler fare se vuole ottenere qualcosa».

Pesare tutti i giorni un atleta potrebbe rientrare in qualche caso nei percorsi obbligati per garantirgli gli alti livelli di prestazione che spera?

«Deve essere chiaro all’atleta che ci sono parametri oggettivi grazie ai quali in determinati sport si vince di più: nel nuoto bisogna avere avere le braccia, mani e piedi lunghi. Una conformazione fisica di questo tipo darà più risultati ed è un dato di fatto. Ma la pesa quotidiana o altre pratiche che ho sentito raccontare in questo giorni credo siano del tutto inutili. Sia in quegli sport in cui il peso è un fattore che conta di più di altri, come la ginnastica o la danza, sia riferendosi ad altri parametri, come può essere quello dell’alimentazione sana per chi corre o del riposo, altrettanto fondamentale per atleti come Marcell. Non è mai giustificato e soprattutto utile agli obiettivi adottare un approccio di questo tipo, che ritengo appartenere alla categoria della violenza psicologica. Ma questa è una consapevolezza che bisogna pretendere dagli allenatori, soprattutto se ci si confronta con atleti molto giovani, che spesso cadono quasi in una sorta di sudditanza nei confronti di chi gli promette grandi traguardi».

Consapevolezza che, se le testimonianze delle atlete venissero confermate, è mancata alle colleghe allenatrici della ginnastica ritmica.

«Dico sempre che gli atleti sono degli animali egoisti mentre gli allenatori devono essere al contrario animali altruisti. Mettersi al servizio del talento che hanno davanti. Quando questo non succede è perché le ambizioni dei preparatori superano la passione dell’atleta. A quel punto il percorso non può dirsi più condiviso. L’atleta diventa un mezzo per la luce che l’allenatore sta cercando su se stesso. E questo succede anche nel mondo dell’atletica per esempio, dove spesso e volentieri l’allenatore incide più in negativo che positivo. Se domani dovessi arrivare agli allenamenti con l’idea di pesare Marcell tutti i giorni, quantomeno mi chiederebbe il perché non senza un duro confronto. Ma stiamo parlando di un atleta di 27 anni, che ha consapevolezze ben diverse da una giovane di 13».

Crede che il fattore età è quello che più di tutti abbia creato il corto circuito nel sistema raccontato dalle ginnaste?

«L’agonismo precoce è un ambito dello sport molto delicato che ha bisogno di figure che conoscono benissimo gli aspetti di quella precisa età e che quindi agiscono di conseguenza. Ma la ricerca del risultato da parte dell’allenatore talvolta può portare a spingere gli atleti su un campo che non li trova ancora pronti. Non dimentichiamoci anche che un po’ tutti gli atleti che arrivano a traguardi altissimi sviluppano quasi un’ossessione per il proprio sport, una condizione che soprattutto in giovane età bisogna saper gestire da parte di chi ha più esperienza. Su questo ci sono dei modelli nel mondo da cui poter imparare».

Mi fa un esempio?

«Il modello francese. In atletica leggera hanno le categorie giovanili come da noi che chiamano promozione. Il nostro sistema prevede però subito il passaggio diretto all’agonismo. In Francia c’è invece una categoria intermedia chiamata Fitness che rappresenta un periodo di transizione, un momento cuscinetto in cui la/il giovane può valutare a livello fisico e psicologico se fare lo scatto agonistico, in un tempo utile anche rispetto all’età per acquisire i giusti strumenti».

Alla luce di quanto sta succedendo in questi giorni nella ritmica, cosa è importante che si sappia dello sport agonistico?

«Il mio grande timore è la strumentalizzazione. Non ho motivo di pensare che quello che le giovani atlete abbiano raccontato non sia vero e non nego il profondo dispiacere avvertito nella lettura delle loro esperienze. Ma vorrei non passasse il messaggio che fare sport sia un pericolo. Non è un caso se in molti paesi anglofoni d’oltreoceano spesso e volentieri le persone che hanno fatto sport anche a buon livello vengono presa nelle migliori aziende perché hanno imparato a darsi da fare, a compiere delle scelte e soprattutto a crearsi obiettivi».

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